Flaminio Gualdoni
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Flaminio Gualdoni
Sono vari e complessi gli elementi che Doina Botez coinvolge nel proprio processo di invenzione pittorica.
In primo luogo, la lezione alta e non univoca della vicenda espressionista, quella Nervenkunst che, tra fine Ottocento e primi Novecento, segna l’irrompere stesso del versante dionisiaco, legittimato ormai come polo ineludibile dell’apollineo, entro l’orizzonte delle aspettative estetiche.
In secondo luogo, con perfetto balance intellettuale, il ricorso a iconografie non facoltative, legate anzi per congeneità proprio a quel medesimo orizzonte: che siano figure di danza, carnascialesche, oppure di baccanale.
Ciò le consente da un canto di schiudere un repertorio di echeggiamenti simbolici che riportano, per altra via, nuovamente alla transizione otto-novecentesca, come eccitando e facendo crepitare gli umori di simbolo sottesi alle svolte secessioniste. D’altro canto, la porta a recuperare in modo non longhianamente ortopedico uno strumentario iconografico che vale, per l’idea storica dell’arte, la rilettura in chiave autre delle persistenze „pagane” entro la tradizione rinascimentale e barocca.
Sono, i satiri e le baccanti di Botez, eredi del fasto lussurioso, intriso di magico e di ombre terragne, che dal controllo formale italiano, e dalla tensione alla deviazione formale pur sempre stilistica del Manierismo nostrano, sboccia, nel Seicento, nella visionarietà nordica e mitteleuropea, devota al riscatto dell’orrido, dell’eccesso, della dismisura, che corre tra Praga e le Fiandre.
Nessuna filologia, beninteso, in queste evocazioni; e nessuna ortopedia, va ribadito. Botez ha colto quell’umore, quel filo rosso sotteso al mainstream della storia dell’arte così come ce la raccontiamo, e l’ha ritrovato sotto la pelle estetizzante della cultura secessionista, una sorta di alito irrazionale e sensuoso, intimamente smisurato, che si coglie un po’ dovunque, a volerlo leggere, da Boccioni a Dix. E quell’umore ha deciso di distillare nelle sue pitture turgide, sontuosamente irritate, affidandosi a grafie pericolanti, a un comporre per squilibri e collisoni, soprattutto a un clima coloristico dalle dominanti sottilmente forzate.
Ecco, è proprio il valore coloristico l’elemento a un tempo reagente e scatenante di questo processo inventivo: il prevalere di rossi spinti sovratono sino a una sorta di vibrazione febbrile, il loro imporsi su tessiture imbigite di terre, su verdi e gialli e celesti disagiati, inameni, indotti a una condizione di straniamento estetico: è un’atmosfera di notturno con luci d’apparizione, una sorta di margine peccaminoso della luce e della forma: quando al pensiero s’affaccia l’ansia sensuoale che non passa per la ragione, impasto oscuro e fremente d’eros e di morte.
Testo critico in catalogo per la mostra personale organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Marino, Logge dei Balestrieri, Repubblica di San Marino, settembre 2003