Domenico Guzzi
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Domenico Guzzi
Vedendo i dipinti, recenti e meno recenti (e, comunque, tra circa il 1997 ed il 2004), di Doina Botez – «[…] venuta da lontano, dal¬le fareste cupe e dure dei Carpazi […]», scriveva nel 1990 Ugo Moretti – si crede che, prima ancora che da certa loro narratività, dalla quale le polarità di oscillazione si com¬prendono tra certe emersioni di attive «me¬morie» ed alcune affermazioni e conclusioni simboliche (narrazione, d’altra parte, cui ri¬teniamo che la pittrice non saprebbe rinun¬ziare, reputandola fondamentale della pro¬pria esperienza), l’analisi debba anzitutto soffermarsi sull’osservazione della materia. Una materia che, non di rado e in alcuni «luoghi» dei dipinti, appare ampiamente elaborata; «luoghi» su cui capita che pur si colga un «grumo» lasciato dal passaggio del pennello. Denso e significante «spessore» che, in altra parte dello stesso dipinto, può accadere che si osservi convivere con solu¬zioni, viceversa, maggiormente «rarefatte», se non proprio «pellicolari». La singolarità di tale impegno materico è, certo, testimo¬nianza di un «mestiere» (la Botez, dopo stu¬di artistici, inizia ad esporre nella sua Buca¬rest nell’ormai lontano 1978), di un intende¬re, ancora, il far pittura quale elaborazione di una «visione» (che «[ … ] non attinge al quotidiano [ …]», come nel 2000 sosteneva Giorgio Di Genova), in pari tempo forte e sensibile. Si vedano taluni particolari. Si di¬ce, ad esempio, d’una tovaglia su un tavolo in linea obliqua, attorno alla quale siedono personaggi -ed è, questa, tensione ad una spazialità: Esordio della Chimera del 2002; piano d’appoggio su cui campeggia un’«alzata» ricolma di frutti – e si constati certa tensione, propriamente in ragione della elaborazione materica, ad una resa in termini di pittura dello stesso «tessuto». Il che, ben inteso, non vuol anche significare tensione alla «mimesi», ché non sembrerebbe davvero questo, tutt’altro, il problema della pittrice. Si vedano, ancora, cert’altri particolari nel «polittico» Rosso di sera del 2003 (e già l’adozione «polittica» suggerisce un rapporto con la storia). Ci si convincerà ulteriormente delle ragioni di quell’utilizzo. Allo stesso modo in cui ci si avvedrà che la Botez può anche giungere alle proprie soluzioni (che, per quanto detto, è da creder che siano per nulla casuali, quanto inseguite e ricercate), non solo per via di «apposizione» di materia-colore (da intendere come anche materia-luce-colore), ma per pari sottrazione della stessa. Ed ecco, allora, certi brani ottenuti «raschiando» la materia, sino alla sola indicazione d’una «traccia». Sulla quale, a volte, la Botez e in punta di pennello, non mancherà di tornare, come a «ricamare» un motivo che è, in ugual maniera, decorativo e strutturale. Diciamo, in sostanza, che la consuetudine con la materia può, nell’accennata convivenza con altrettante «rastremazioni» (ancora in Rosso di sera si veda come i riferimenti antropomorfi siano assai meno densamente elaborati), convincere d’una qualche meditazione di ascen¬denza «informale».
Detto qualcosa, dunque, di quel che, rispetto all’articolazione narrativa, sembrerebbe l’e¬videnza meno «appariscente» di tale pittura (ma determinante e «salvifica», per quel che ci riguarda), non rimane che soffermarsi sui «motivi» iconografici che, come non di ra¬do, sono quelli i quali, e a tutta prima, mag-giormente configurano le possibilità di un’a¬scendenza culturale. Per i quali «motivi», e sui quali, sono altresì state scritte pagine pertinenti negli anni a noi più prossimi.
Non c’è dubbio che la «fantasia» della pittri¬ce (per la quale vengono in mente certi contemporanei spagnoli) – «fantasia» resa evi¬dente per qualità di impostazione, nonché per talune e palesi «trasgressioni» segniche e formali, ma anche, e soprattutto diremmo, per tensione alla complessità simbolica di un narrato – tragga ispirazione dalla lezione «espressionista». Come ha giustamente rile¬vato Flaminio Gualdoni, recentemente pre¬sentando la Botez nel catalogo d’una mo¬stra alle «Logge dei Balestrieri» (Repubbli¬ca di San Marino): «[ … 1 In primo luogo, la lezione alta e non univoca – scrive – della vicenda espressionista, quella della Ner-venkunst che, tra fine Ottocento e primi Novecento, segna l’irrompere stesso del versante dionisiaco, legittimato ormai co¬me polo ineludibile dell’apollineo, entro l’orizzonte delle rispettive estetiche [ … ]». Un espressionismo, dunque, delle «origini».
Una pari affermazione, e sin dal 1999, in un testo di Paolo Levi: «[ …] pittrice di chiara, derivazione espressionista. Non si tratta di parentela generica, bensì di una radice spe¬cifica che risale all’espressionismo classico, quello nordico, fauve, del primo decennio del secolo, tanto per intenderci [ …]». Allo stesso modo in cui Mario Lunetta nel 1991 poteva, da par suo, mettere in chiaro che «[ …] Parlare di espressionismo barocco è fin troppo facile, di fronte a questa pittura. Eppure, a ben vedere, il gioco delle prospet¬tive scorciate e sghembe e l’apparizione del¬le figure quasi costantemente colte in situa¬zione dinamica (e, ça va sans dire, innatu¬ralistica) rimandano forse più a sontuosi tagli cinematografici, a inquadrature in¬quiete e impossibilitate a fissarsi, a tempe¬rature alte e ventose in cui volano colpi, e si avvitano vesti, capigliature, respiri […]».
Richiamo all’«inquadratura» (ed è riferi¬mento, dunque, alla «struttura» dell’immagi¬ne), che sembra essere assai significativo, e per più di un motivo. Non solo quelli cui ac¬cenna Lunetta, ma per virtù di un costante richiamo al dispiegarsi d’una «vicenda» , benché criptica a volte. I personaggi, infatti, sono sempre dichiarativi d’una situazione, d’una condizione d’esistenza. La loro ge¬stualità, allora, non è affatto «gratuita», ma segue una logica ed una «disciplina» com¬positiva; gli spazi di reciproca separazione sono altresì interagenti: uniscono oltre che separare; le luci, infine, «battono» sul sog¬getto, le ombre avvolgono il rimanente. La pittura della Botez è a «camera» fissa sulla scena. Ciò vuol significare che essa, com’è naturale, inquadra tutto, ma, soprattutto, quel che è «messo in luce» dalla «sceneg¬giatura».
Roma, ottobre 2004