Flaminio Gualdoni
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Flaminio Gualdoni
Il corpo dell’immagine
1. È il 1989, anno fatidico nella storia della sua Bucarest e dell’Europa tutta, quando Doina Botez si trasferisce definitivamente a Roma.
Certo, il contesto internazionale non le è ignoto, ma lo strappo biografico la costringe a delucidare in modo netto la propria identità e le proprie vocazioni d’artista.
Viene da un’intensa stagione di grafica, d’illustrazione, di scenografia. Il suo rapporto con il figurare è essenziale. È montare un teatro di visione a partire dall’esperienza sensibile, è espandere il sentimento dell’esistenza sino a rendere protagonisti, come voleva Socrate, “i moti dell’anima”. È filtrare e attualizzare le tradizione lunga dell’immagine con valore simbolico e allusivo forzandone gli aspetti epidermici di referenza, coagulando piuttosto un grumo ad alta valenza poetica anziché prosaica.
Botez si trova in una condizione atipica, rispetto agli autori della sua generazione. L’arte ridotta a dibattito sull’arte, il gioco intellettualistico per cui l’arte contemporanea, bamboleggiandosi nella contemplazione di se stessa, è giunta ormai a concepirsi come una mera fantasmagoria autoreferente e svuotata, spettacolo di immagini figlie d’una accecata malia narcisistica, le sono geneticamente estranei. Non le importa la novità del modo, la blague culturale, il birignao mondano. La pittura è pittura, senza se e senza ma. Conta ciò che se ne fa, e soprattutto il perché: scriveva Francesco Arcangeli che “l’arte, l’opera, quel pezzo di tela o di tavola, quella superficie piana e convenzionalmente rettangola è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira”. Il quadro è, per lei, immagine necessaria, un fatto dell’anima da scontare in pittura e offrire all’esperienza mentale ed emotiva dello spettatore, nel modo più intenso e diretto possibile.
Botez è spinta da un’urgenza diversa da quella dell’omologazione mondana della sua figura d’artista. Il suo lavoro ha altri tempi, orizzonti diversi. Non si tratta, beninteso, di un atteggiamento di diserzione o di antagonismo verso la modernità. Semmai ella può dire, con Roland Barthes, che “d’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente”, perché la prospettiva avvincente è quella lunga della durata, dell’intensità, della pittura di valori in luogo del gioco del linguaggio.
Dunque l’artista sceglie per se stessa l’appartatezza ispida del poeta – e non a caso tra i suoi compagni di strada figurano personaggi come Mario Lunetta e Plinio Perilli – e una forma di coltivata inattualità, a protezione d’una operosità concentrata e silenziosa nel farsi, quanto clangorosa negli esiti espressivi.
2. “Nella sua fase iniziale la pittura di Doina Botez è stata un grido trattenuto, un’esclamazione di piacere o dolore davanti allo spettacolo quotidiano dell’esistenza. Mi ricordo molto bene i suoi dipinti della fine degli anni ’70: erano una parte addolorata di una città addolorata”, ha scritto Grigore Arbore Popescu.
Erano, soprattutto, un vedere oltre le clausole del racconto, della trascrizione, addensando stati emotivi, avvicinando, per dire con Kandinskij, l’orecchio dell’anima alla bocca dell’arte. Il primo tempo italiano rafforza tale disposizione, affinandola sul piano compositivo e dello spettro coloristico.
Botez matura un figurare dalle concitazioni rattenute, teso su diagonali e fasci curvilinei marcati, il cui epicentro è un’idea, più che di individuo, di corpo vivente in una situazione ansiosa, talora allarmata. Si avvia qui l’esplorazione della dimensione anche sensuale dell’immagine, sino alle sue implicazioni profonde e oscure.
La radice è quella dell’oltranza stilistica che segna il passaggio tra ‘800 e ‘900, con Munch a fare da figura di riferimento, e l’impurità assunta come sovratono e accelerazione affettiva della forma.
In Il superamento del naturalismo, 1891, Hermann Bahr aveva indicato chiaramente che “quando il classicismo dice ‘uomo’ intende ragione e sentimento e quando il romanticismo dice ‘uomo’ intende passioni e sensi; e quando il Moderno dice ‘uomo’ allora intende nervi”, teorizzando che è venuto il tempo della Nervenkunst. Ciò che il corpo aveva rappresentato per secoli, lo specchiamento nella perfezione del divino, la bellezza che trascende l’esperienza ordinaria, la centralità di un sentirsi comunque in un rapporto pronunciabile con la natura, si fa rottura e deriva, consapevolezza acuminata dell’inconoscibilità dell’umano, i cui meandri esplorare in cerca d’una luce possibile.
Botez riannoda quel filo alla trama di esperienze che nel ‘900 hanno scritto non una modernità ottimistica, ma una radicale perdita di centro, un’angoscia persistente, il dubbio insanabile.
Il corpo, dunque. Secondo una linea che da Munch e dalla Wildheit tedesca – ma con memorie persistenti dell’umore di simbolo e dell’arabesco viennesi – porta al surrealismo iconograficamente più metamorfico e visionario, André Masson e il Picasso degli anni ’30 in testa, e a Bacon.
I corpi di Botez si costituiscono per schematizzazioni brusche, assettate lungo linee di forza sinuose e potenti, come addensamenti dello spazio. L’artista nasce dal disegno, da un tratto fluente ed energeticamente accelerato, e questa filigrana si legge comunque nello stratificarsi elaborante della materia.
Ora tuttavia, in questo primo tempo romano, le dominanti brune e grigie poste appena in vibrazione da una luce timida prendono a dialogare con accenti diversi: e sono celesti e viola, rosa e voglie di bianco, che si concedono al fluire accelerato delle pennellate, come brividi che animano gli spalti serrati dalla materia dominante.
3.
“L’individualità di Doina si manifesta così per azzardi continui tra il momento lirico e il momento costruttivo”, osserva Lunetta nel 1991, perché “questa pittura che insegue la forma dentro il magma, il profilo definito dentro la cecità delle viscere, necessita, per dispiegare tutta la sua struggente volontà di comunicazione, di presentarsi, per così dire, quasi nel corso di una colluttazione e di un conflitto. È una pittura che genera allarme, non pacificazione contemplativa. Una pittura sapiente e rapida, tutta spinta sull’impeto, ma d’altronde sempre capace di organizzarlo entro una sintassi decisa, che impone allo spazio della tela la propria presenza e le proprie cadenze”.
È chiara la lettura di quella stagione di Botez. Mai scatta per lei la trappola dell’effusione dispiegata senza controllo. Mai, soprattutto, il cedimento alla sensiblerie che il luogo comune ha reso stereotipo femminile.
Il controllo del processo pittorico, dei suoi tempi, vi è ferreo, l’artista spinge semmai la propria coscienza della costruzione dell’immagine a un grado di acuminatezza che non imbriglia la pulsione inventiva, ma ne distilla gli umori profondi.
Lo struggle non è nelle fattezze della figura, ma nella sua natura prima di corpo di pittura, equivalente d’un rimuginio sul corpo fisico che mira a intuirne l’identità profonda, il mistero della sua sostanza e del suo farsi apparenza: e qui il femminile di Botez assume qualità piena e non retorica.
Botez si avvede presto che una chiave per rendere ulteriormente efficace il proprio impianto espressivo è sfruttare pienamente le possibilità offerte dall’impianto tematico, in una sorta di raddoppio concettuale di quanto già avviene sul piano specifico del processo pittorico.
Ancora, è la grande tradizione novecentesca (con tutto quanto essa comporta sul piano dei riferimenti storici di lungo corso) a offrire un modello problematico fruttuoso.
È, in un primo momento, il tema della maschera e di scene carnascialesche: poi, su un piano di remitizzazione esplicita, quello di satiri e ninfe, di baccanali, di collisioni potenti tra dionisiaco e voglie d’apollineo, tra un corporeo che viva in pieno le proprie vitalissime implicazioni animalesche e sia insieme in grado di ripensarle, di ripensarsi.
Ciò spinge Botez a un à rebours iconografico in cui l’originario impianto ad alto tasso di espressività si media con asserzioni tematiche forti, derivate da una frequentazione tutt’altro che pedissequa dell’antico. Osserva giustamente Claudio Strinati che l’artista “non è una classicista attestata su posizioni arcaiche ma è un’artista nutrita di classicità senza alcun coinvolgimento di rimpianto o riproposta di ciò che è irrimediabilmente perduto. È artista del nostro tempo che attinge, però, dalla classicità un’idea fondamentale che funge da orientamento per tutta la sua opera. E questa idea è proprio nel criterio della continua e incessante trasformazione delle forme, della metamorfosi intesa come integrazione di momenti opposti ma sempre compatibili l’uno con l’altro”.
È della fine del decennio ’90 una serie grafica, preannunciata da alcuni fogli degli anni precedenti, di notevole interesse. Sono acqueforti e tecniche miste in cui Botez riversa l’elemento essenziale della sua intuizione, una capacità di auscultazione del nucleo psichico d’invenzione che si fa situazione plasticamente vivida e di modificazione fisica: anche in questo caso è il corpo dell’immagine a farsi pienamente titolare dell’espressione.
L’innaturalezza rappresentativa si rafforza perché assume non solo dalla tradizione nuova del ‘900, ma anche, nell’impianto d’immagine e nella concezione e sviluppo della scena, più esplicitamente dal “far grande” dei secoli nobili dell’arte. In altri termini, Botez instaura e alimenta una forma di complesso e sottilmente nevrotico manierismo.
4.
Nel 2000 l’occasione propizia per misurarsi ancor più apertamente con i fasti pittorici antichi proviene a Botez dalla commissione di decorare una cupoletta nella cantina Mastroberardino di Atripalda, nell’Avellinese.
Il tema che s’impone è quello bacchico, e la struttura del luogo richiede di necessità di misurarsi con una composizione che rimemori il moto circolare ascendente verso il culmine della cupola.
L’artista declina una versione ulteriore del montare spiraliforme dell’immagine, che si fa anche avventura d’una luce alta e straniata. Deve rinunciare, qui, alle certezze della materia spessa, del contraddittorio fruttuoso tra spatolate piene di materia e nettezza delle fluidità grafiche.
Enuncia il suo teatro arioso di figure, ma l’intonazione complessiva è data dal trascorrere del clima visivo dai rossi sanguigni e dai celesti affatturati alla dominante d’un giallo straniato, come disagiato.
Non è un trionfo della natura, ma un mistero che si enuncia. Non è un’allegoria, ma una visione tutta d’anima in cui si emulsionano umori diversi, dall’aroma cinquecentesco al fregio tardo-ottocentesco, quando tutto si riduce a citazione illanguidita: qui no, la cifra è come ribaltata, la sottrazione estetica che Botez attua altro indica, una sorta di condizione tutta mentale, un picco psicologico reso immagine d’impianto classico.
A emergere da questa esperienza pittorica, occasione in effetti rara per l’artista contemporaneo, è la convinzione della possibilità ulteriore di forzare un affondo iconografico che del mito di faccia scudo per esplorare definitivamente, senza remore, la propria complessa dimensione psicologica.
La chiave è quella far sì che la figura, assunta più nettamente in primo piano, forzi le condizioni spaziali: essa non è là, slontanata nella sua distanza abitata da grigi petrosi e da bruni d’ombra, ma monta alla superficie per farsi presenza, in un “dove” che è direttamente condizione emotiva e intellettuale del riguardante.
Superficie, e naturalmente, giusta la lezione del ‘900 maggiore, tarsia, con quel segnarsi ormai esplicito dei contorni a reggere la pressione dei sovratoni asciutti e bruschi, sempre sottilmente acidi, d’un colorire manierato che ora s’impone con autorità di protagonista.
5.
Botez sa, sin dai suoi inizi, che la sua pittura non può essere pacificata, che l’inquietudine e il dubbio le sono connaturati. Percorre come lenticolarmente, con sguardo penetrante sino al punto da straniarsi, i luoghi identitari del corpo: volto bocca mani, su tutti. Scava situazioni continuamente ambigue, tra eros e avvertimento d’oscuro disagio, in odore di perdita. Sempre, situazioni in cui l’identità è come in bilico, in transito, è e può non essere.
I colori che presiedono il nuovo clima visivo sono focosi, ardenti, avvampati, rossi saturi e viola, verdi forzati allo stridore, celesti taglienti e inquieti. La loro evidenza è scabra, la contaminazione li intorbidisce ma insieme li amplifica, la stratificazione di zonature piene e forti e di movenze sensuose e urgenti induce una lettura fervidamente discontinua, come d’un respiro che prema. Essi assumono, anche, un retrogusto di simbolo che ancora una volta rimanda, mutatis mutandis, ad aromi fin de siècle francesi e viennesi.
È notevole osservare come Botez si ponga ora in modo esplicito e problematicamente non banale la questione del formato del dipinto. La marcata verticalità o l’orizzontalità, non immemori d’un certo gusto secessionista, chiariscono che non ci troviamo di fronte a figure ambientate, ma a immagini emblematiche, che ostentano la loro evidenza precisa e forte, perché esse non sono parte di una visione, la sono la visione.
Naturalmente tutto questo corrisponde a un ricorso ancor più accentuato alla tematica metamorfica, a partire dallo spunto inesauribile di Ovidio, dal quale trae il titolo anche il trittico Metamorfosi, opera tra le più impegnative della metà del decennio scorso. Da Eco a Cefiso e Liriope, l’intero apparato di motivi del mito di Narciso è oggetto delle invenzioni di Botez, che ha dedicato riflessioni anche a figure come Chimera, Europa e Leda.
Le implicazioni di tale repertorio tematico sono evidenti, e riguardano la tensione dell’artista a perimetrare la propria identità e lo spettro dei suoi territori psicologici ricorrendo a oggettivazioni tematicamente consone, non meno di tematiche come l’ebbrezza, il sogno, l’insonnia, che presidiano la zona grigia in cui l’irrazionale e la coscienza conducono una lotta non impari ma forse senza senso
(“è un’atmosfera di notturno con luci d’apparizione, una sorta di margine peccaminoso della luce e della forma”, m’è accaduto di scrivere altrove), e che invera perfettamente quella che W.H. Auden ha battezzato a nome di tutti The Age of Anxiety.
Si dice d’anima, ma si dice allo stesso tempo d’una consapevolezza drammatica del corporeo e della sua implicita animalità, quel vivere dei sensi e nei sensi che fa degli uomini i brotòi, avvinti alla loro condizione inflessibile di mortali.
6.
S’è detto all’inizio della condizione di inattualità sostanziale che Botez ha scelto per se stessa. La sua pittura è ostica, chiama lo sguardo in virtù dei suoi accenti fascinosi ma subito si sottrae al compiacimento, al godimento, imponendo la propria presenza inamena.
L’artista ha scelto di non farsi esponente dell’“art post-auratique” fatta per “le monde mondain de l’art”, per citare Yves Michaud, e allo stesso tempo di non farsi paladina o vessillifera di qualcos’altro.
La sua pittura è un “a parte” continuo, una solitudine coltivata e lucida, una dickinsoniana “condizione scalza” che non presume e non pretende riconoscimenti. È un fatto difficile e necessario, talora doloroso.
Straniate non sono solo le sue immagini. Estranea, irrevocabilmente, è la loro presenza al mondo. Ma proprio da ciò esse traggono la loro forza, una durata riverberante di coscienza che ne amplifica la lettura, quando non sia sommaria o distratta, quando non sia ottusa dalla transesteticità del banale.
Esse sono accidenti che ci avvertono, nella loro discontinuità esteticamente aggressiva, che un’altra coscienza è possibile, perché il senso dell’arte non è un attributo di circostanza, ma un valore inderogabile di cultura.
Testo pubblicato in qualità di autore nell’ l’album monografico “Doina Botez, Il corpo dell’immagine, opere 1989 -2013”, Skira Editore, 2013