Doina Botez – Anima Picta 2020
Doina Botez – Anima Picta 2020
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Giuseppe Rippa
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Giuseppe Rippa
La libertà contro l’oblio della rassegnazione
Memorie di un vissuto recente muove su due piani che inevitabilmente si incrociano. Al centro la libertà e la sua limitazione morale, intellettuale, sociale, politica, che nasce dalla costrizione dittatoriale ma anche dalla rassegnazione e dalla assuefazione delle persone al ricatto, alla violenza delle tendenze autoritarie contro cui l’uomo comune non trova le energie e la forza di contrapporsi ma contro cui ad un certo punto decide di opporsi per sottrarsi all’oblio della rassegnazione.
Le illustrazioni di un libretto di poesie per bambini, che Doina Botez realizza per la poetessa rumena Ana Blandiana a fine anni ottanta, sono un sintesi, deliziosa e limpida, di coraggio e fermezza con cui l’artista, nella profondità della propria vocazione di autonomia e di reazione alle costrizioni, coglie la purezza della favola per inserire i segni di un dissenso fermo e non riducibile, inserendo figure nascoste e invasive che nell’immagine di animali, persone, oggetti, fotografano l’oppressiva minaccia di un regime totalitario.
Questa sua “provocazione” verrà messa all’indice dal regime di Ceausescu, non le sarà più permesso di illustrare altro…
L’altro piano è proposto nei quadri che si collegano alla rinocentite che Eugène Ionesco, nel suo teatro dell’assurdo, descrive come la metamorfosi, apparentemente surreale, in cui le persone sono trasformate fino al cedimento di fronte ai modelli autoritari e totalitari.
„Sono anni che mi sento stanco…! Faccio un tale sforzo a trascinare in giro la mia carcassa”. E poco dopo: „Ho sempre l’impressione che il mio corpo sia di piombo… come se portassi un altro sulle spalle. Non riesco ad aver coscienza di me stesso… non so nemmeno se sono proprio io”. Così il drammaturgo fa parlare uno dei suoi personaggi, preda di una paralisi da rassegnazione.
Bene, Doina Botez rende omaggio a Ionescu, che si sentiva oppresso da individui divenuti rinoceronti, con opere che raccontano una sorta di rottura di questa sofferenza. È un’ansia la sua di libertà e di lotta per realizzarla che non si ferma davanti ad una pressione ossessiva e disumanizzante.
La memoria, come ci ricordava Sciascia, da coltivare per definire un impegno civile che si sottrae alla passività e alimenta la speranza e la volontà di far emerge i valori civili e umani a cui ancorare il proprio futuro…
Testo critico per la presentazione della mostra personale „Memorie di un vissuto recente” al Palazzo Santa Chiara, Roma, dicembre 2019
Giovanni Lauricella
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Doina Botez: Memorie di un vissuto recente
di Giovanni Lauricella
Fra le antiche pareti di Palazzo Santa Chiara, con la cura di Carla Mazzoni e Giuseppe Rippa, promossa dal Centro Studi Arte Contemporanea Preferiti e dalla Nuova Associazione Amici di Quaderni Radicali, con il patrocinio dell’Ambasciata di Romania in Italia, dell’Istituto Culturale Romeno e dell’Accademia di Romania in Roma, si è inaugurata il 13 dicembre Memorie di un vissuto recente, mostra di rilevante importanza storica e politica della pittrice rumena Doina Botez, vittima delle persecuzioni nell’est europeo quando era sotto la morsa del dominio comunista egemonizzato dall’Unione Sovietica.
Una piaga dolorosa della storia che è sottaciuta anche dopo la fine del muro di Berlino, forse perché sostituita da quella – meno visibile – dell’omertà politica che nessuno osa nemmeno oggi denunciare.
Una difficoltà già menzionata in una mostra da me recentemente recensita in Agenzia Radicale Tecniche d’evasione. Strategie sovversive e derisione del potere nell’avanguardia ungherese degli anni ’60 e ’70 al Palazzo dell’Esposizione dal 4 ottobre al 6 gennaio (tuttora in corso, da vedere) perché siamo sotto una gestione culturale politicamente strabica.
La Botez, come tutti gli artisti che vivevano sotto l’oppressione comunista, doveva celare il suo vero pensiero sotto figure allusive, al punto da rendere le opere artistiche simili a messaggi da decriptare, un po’ come le opere di Sergio Ceccotti che sembrano essere dei rebus: una voluta tendenza enigmistica che si rifà alla poetica surrealista. Con una differenza: mentre per i fortunati, nati e vissuti in paesi liberi come Sergio Ceccotti e simili, è la situazione in bilico tra realtà e fantastico a dare valore all’opera, per la sfortunata Botez era una triste necessità celare con uno stile fantastico fatto d’innocue figure una realtà politica ben precisa, onde darne il giusto significato.
Immaginatevi la tipica frustrazione che ha solitamente un artista che dovrebbe dare alle proprie opere la capacità di comunicare, ma che è costretto addirittura a celarne i contenuti per non subire inquisizioni poliziesche: un dramma paradossale che la dice lunga sul teatro dell’assurdo di Ionesco, anch’esso originario di questa terra che è stata a lungo repressa.
Dico tutto questo perché parlare di quadri pensati come illustrazioni di poesie per bambini per il libro Storie della mia strada, della poetessa rumena Ana Blandiana, dove i gatti, miti animali domestici, simboleggiano il dittatore comunista rumeno o le sue spie poliziesche, non debbono sembrare dei semplici pupazzetti ben disegnati, acquerelli che non sono semplicemente belli o interessanti, ma che hanno un valore aggiunto di gran lunga superiore a quello che potrebbero sembrare.
I quadri esposti sono stati la testimonianza di una condizione d’artista talmente insopportabile che costrinse l’autrice Doina Botez a lasciare la sua amata terra per l’Italia dopo le minacce ricevute dai funzionari rumeni di Ceausescu, che ritirarono il libro da lei illustrato dalla circolazione.
All’ingresso della grande sala di Palazzo Santa Chiara si notano delle splendide opere su carta dove le scolature e le tortuose pennellate di colore sul bianco candito offrono un contrasto incredibilmente equilibrato: si tratta de La rinocerontite ispirata a Eugene Ionesco, le metamorfosi apparentemente surreali che sfigurano l’uomo sotto il peso dell’autoritarismo e del totalitarismo. Qui si aprirebbe un altro capitolo che sarebbe troppo lungo, riguardo a Ionesco e al suo teatro dell’assurdo: consiglio pertanto di abbandonarsi al piacere visuale che offrono questi quadri, con particolare attenzione al grande quadro che primeggia nella sala, che da solo vale tutta una mostra. Parlo di Incubo, il grande acrilico del ciclo delle Ombre che più di tutti racchiude le angosce di Memorie di un vissuto recente, così recita il titolo assai appropriato che racchiude il tema portante della mostra.
Di Ionesco, che tanto ha dato alla cultura mondiale, dirò solo che il suo linguaggio, aspetto centrale nella sua impostazione teatrale, appare squisitamente fruibile se coniugato in senso speculare a quello pittorico di Doina Botez.
Articolo critico in Agenzia Radicale sulla mostra personale „Memorie di un vissuto recente” al Palazzo Santa Chiara, Roma, dicembre 2019
Carla Mazzoni
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Carla Mazzoni
Doina Botez, l’artista, la donna
E’ difficile parlare dell’artista Doina Botez senza parlare della Doina Botez donna. Troppo presente nella sua produzione artistica l’impronta indelebile che negli anni vissuti a Bucarest, sua città natale, ha impresso in lei, nel suo animo, il terribile statista Ceausescu con il suo regime poliziesco e tirannico.
Per anni Doina Botez ha attivato un meccanismo per cui, dietro immagini fiabesche di illustrazioni per libri d’infanzia o di cartoni animati, celava le ansie, i turbamenti e le vicissitudini che era costretta a subire quotidianamente in Romania nel tentativo di esprimere liberamente la sua Arte grafica e pittorica.
In questa mostra romana a Palazzo Santa Chiara, l’artista presenta un dipinto ad olio-acrilico e alcune raffinatissime tecniche miste su carta, inoltre alcuni acquarelli del 1988 eseguiti per illustrare il libro per bambini Intimplari de Pe strada mea della poetessa rumena Ana Blandiana, mai esposti fino ad ora. Queste illustrazioni a suo tempo, quando il libro fu pubblicato in Romania, procurarono a lei e alla poetessa un’ammonizione da parte dell’organo preposto al controllo della Stampa ed il divieto per il futuro ad illustrare libri. Il libro fu ovviamente censurato e immediatamente ritirato dalle librerie.
Come è noto, ogni artista, per propria ineludibile vocazione, trasfonde nel fare artistico tutto l’archivio di emozioni, esperienze e sentimenti occultati nel suo profondo, ma Doina Botez artista, per esprimersi in un paese regimentato, ha dovuto trasformare e mascherare – con grande ironia, fantasia e perizia – in insetti, animali e uccelli, i personaggi e gli eventi che quotidianamente l’angustiavano.
Quando, di recente, l’artista è stata invitata a partecipare ad un’importante mostra a Lisbona, A Viagem do Riniceronte, in un senso liberatorio – una vera metamorfosi – sono nate le opere, da lei dedicate come omaggio al grande drammaturgo rumeno-francese Eugène Ionesco e alla sua famosa opera Il Rinoceronte, un’opera solitamente interpretata come allusione ai totalitarismi, comunismo, fascismo e nazismo. Ionesco diceva di vedersi attorniato da “rinoceronti” in un mondo che si uniformava e si condannava all’anti-umanità.
Per Doina la realizzazione delle Metamorfosi è stato „un lavoro doloroso d’introspezione e di memorie dormienti” come lei stessa confessa. Al centro di questi lavori l’artista pone sempre e comunque l’Uomo quale protagonista assoluto dell’immagine. L’Uomo è presente con il suo carico di dolore e di speranza, sia che appaia schiacciato dal peso dell’esistenza o ripiegato sotto la fragilità del suo io, sia che si lasci andare ad attimi di ebbrezza o si abbandoni a sogni e speranze.
Osservando Incubo, il dipinto appartenente al nuovo ciclo chiamato Ombre, presente in questa mostra, possiamo percepire gli inquieti sentimenti che dai sepolcri dell’anima dell’artista sono affiorati e si sono concretizzati nell’ immagine. In questo dipinto la sofferenza stravolge il volto in trasformazione dell’uomo e la bocca è spalancata in un urlo silenzioso ma assordante. Non è un quadro di grandi dimensioni, ma s’impone con potenza d’immagine come un grande quadro di richiamo anacronistico. L’artista ne ha voluto mitigare il dramma arricchendo la parte inferiore dell’opera con tanti piccoli segni, tracciati a pastello, di delicati celesti e gialli e accentuando la morbidezza della mano in primo piano, che con gesto di abbandono copre il volto del dormiente.
Sono di estrema raffinatezza le Tecniche miste anch’esse del ciclo Metamorfosi. Le matite sembrano aver appena sfiorato il foglio nel tracciare velocemente il disegno, mentre chiazze di delicata colorazione, scontornate, libere nella superficie del foglio – a volte sembrano quasi galleggiare sull’immagine – creano un’atmosfera del tutto particolare e personale.
Gli Acquarelli, vera chicca dell’esposizione, oggi esposti per la prima volta, hanno la fantasia e il potere che hanno le fiabe, incantano, divertono, e come le fiabe trasmettono ben oltre la narrazione ed il visibile. Sono un mosaico di piccoli quadri con scene ricche di fantasia, movimento, suggestioni e sorprese, opere che allineate insieme concorrono a comporre un vivacissimo teatrino dietro il quale Doina Botez ha saputo abilmente mascherare ombre e personaggi oscuri. Oggi che il flusso del tempo ha dissipato le ombre restano per sempre in queste deliziose piccole opere d’arte la fantasia e l’abilità dell’artista.
Testo critico per la presentazione della mostra personale „Memorie di un vissuto recente” al Palazzo Santa Chiara, Roma, dicembre 2019
Dan C. Mihăilescu
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Dan C. Mihăilescu
Eul nărăvaş în coregrafii năvalnice
După inerentele ezitări iniţiale (justificate, ca de obicei, de stânjeneala senzaţiei de contre-emploi şi inadecvare pe care mi le creează diletantismul meu, tot mai înverşunat, observ, în cele picturale), am cedat la iuţeală în faţa provocării de-a scrie despre somptuos învăpăiata lume imaginară din tablourile Doinei Botez.
De ce ? Nu mi-e ruşine s-o spun neted : graţie percutantei emoţii retrăite la vederea copertelor realizate de domnia sa pentru Degeţica lui Andersen în 1984, ca şi la Heidi, fetiţa munţilor, pe care ţin minte şi azi cât le-am savurat împreună cu fiica noastră, apoi la Întâmplări din grădina mea şi Întâmplări de pe strada mea, cărţile (oare numai pentru copii ?) ale Anei Blandiana cu aşa un destin paradoxal. Am reparcurs mental într-o clipă oceanul de umilinţe, mizerie, urâciune, sleire fizică, deprimare şi uscăciune morală în care ni s-au înecat anii 70-80 ai veacului trecut, când ceauşismul condamnase parcă pe veci frumuseţea, confortul, liniştea, rafinamentul, armonia, ghiduşia, delicateţea, pe scurt : plăcerea şi bucuria de-a fi. Totul, în numele unei grotesc-macabre supravieţuiri catacombare, pentru care urâtul utilitar, în rol de Caliban, era menit să ne transforme în umbre târâtoare, sau, mai degrabă, în convulsiile veninoase ale unei decerebrate neputinţe generalizate.
Când am mai aflat că Doina Botez a făcut scenografie inspirată din universul lui Bruegel cel Bătrân, că are nostalgia cernelurilor şi a hârtiei tipărite, că a copilărit cu basmele lui Andersen şi ale fraţilor lui Grimm povestite de bunica şi că a pictat hipnotic măşti hohotind pe podurile carnavalulului de la Veneţia, atunci empatia mi s-a dezlănţuit irepresibil.
Şi iată-mă captivul acestei senzualităţi debordante, temperament sangvin cu tuşe coleric-baroce şi apetit narcisiac, cu pânze flamboaiante, de-o carnalitate triumfător acaparantă, închipuind adeseori un soi de care alegorice ale sfintei nebunii ritualice din străvechile bachanalii. Pânze dionisiace, cu palpitaţii vulcanice, forfotind de patimi onctuos depliate, cu virilităţi dominatoare, metamorfoze aiuritoare, cruzimi halucinate şi gesturi abrupte, de un erotism nesăţios şi graţios în egală măsură, totul explodând un cromatism invaziv, verde, vineţiu şi roşu, deopotrivă teluric, acvatic şi ignic.
Fizionomii de zeităţi insaţiabile, vegetaţii luxuriante, gestualităţi abracadabrant convulsionate, nemărginite revărsări din cornul abundenţei, îngurgitări enorme, cu ludic pansexualism subtextual şi pentru care răpirea Europei, dezlănţuirea Menadelor, sau zeiasca posedare a Ledei devin embleme totalitare. Faţă de ele, detectarea unor cadre şi volute Jugendstill, anume reliefuri îmbârligate arcimboldeşte, câte o reminiscenţă din Tizian, sau Picasso, ori din mai vechea frecventare a lui Munch, dar chiar şi desele trimiteri la excesele umorale din panoplia expresionismului – adaugă magnetizant câţiva pigmenţi suprinzători acestui vulcanism interior livrat cu exacerbare imaginarului metamorfotic.
O pictură care „urmăreşte forma înlăuntrul magmei”, cum perfect, cred, o defineşte Mario Lunetto. O pictură, continuă el, care alarmează şi inflamează, nu generează nicidecum linişte, împăcare, contemplaţie. Vizionarism chimeric pe fondul unei senzualităţi luxuriante. Proiecţiile hiperbolizante ale unei energii în fabuloasă desfăşurare. Era aproape fatal, aş zice, ca Metamorfozele lui Ovidiu să se ciocnească de „Gnothi se avton” (Nosce te ipsum), sublimul îndemn de pe frontonul de la Delfi, pânzele Doinei Botez fiind tot atâtea alchimii lăuntrice, într-un Athanor pentru care patima înfiorată, extazul sorbitor şi explozia cromatică oferă combustia ideală.
Revenind în România după un sfert de veac, cu o suită picturală copleşitoare prin jubilaţie, exuberanţă, nesaţiu proteiform – Doina Botez ne va găsi, probabil, agasant de moi, pehlivani dezorientaţi şi dezarticulaţi, suspendaţi într-o levitaţie pe cât de inocentă, pe atât de condamnabilă. Fie ca energetismul său (împreună cu cât mai multe altele) nu doar să ne încânte vizual, ci să ne stârnească benefic latenţele interioare.
Testo critico in catalogo per la presentazione della mostra personale „Alchimii Afective” alla Galleria Romana, Bucarest, novembre 2014
Aurelia Mocanu
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Aurelia Mocanu – Bucarest, novembre 2014
Mâna lui Narcis
Doina Botez, artistă cu dublǎ apartenenţǎ culturalǎ româno-italianǎ, este o consacrată pasageră pe „Corabia-nebunilor-după-desenˮ. Prima îmbarcare a fost în perioada de studii bucureştene, în prima parte a anilor ’70. Schimbarea de areal profesional pentru artistă s-a petrecut simultan cu schimbarea de regim istoric românesc, după 1990. De atunci, Doina Botez s-a imersat în memoria figurativului mitic mediteraneean. A întreţinut miceliul pictural al unei reconstituiri de lume veche, cu un anume echivoc oniric al imaginii, potenţat de atmosferă cromatică, am spune „viscontianăˮ. Personaje ale mitologiei latine, revizitate în irizǎrile unui cromatism ardent şi în posturi de agape patriciene, populeazǎ, de aproape două decenii, pictura Doinei Botez.
De la tondo-ul de peste patru metri, dedicat bolţii de veche cramă de la centrul cultural Avellino-Napoli (2000) , pânǎ la marile expoziţii de la Galeria Naţionalǎ din San Marino (2003) şi Castel San’Angelo din Roma (2009), Doina Botez iradiazǎ, ca nume artistic, dinspre Roma spre sudul Italiei, până la galerii din landul westfalic. Anul trecut, râvnita editură Skira i-a dedicat artistei un elegant album, format mediu, pentru intervalul de creație1989-2013, intitulat „Il Corpo dell’immagineˮ.
Figurația teatrală a seriilor tematice stǎ, la Doina Botez, sub semnul pǎgânismului rafinat şi al jocului de metamorfoze, sprijinit de recuzitan măştii, a reflectărilor, sau a stărilor secunde. Astfel, după ciclul bacantelor, percepţia portretului se poate multiplica etilic. Dansul nimfelor sau spanioloaicelor despleteşte şi transfigureazǎ siluetări. Echo şi Narcis pierd sensul realitǎţii, căci „oglindireaˮ poate derealiza lesne portretul. Pe lângǎ aceaste licenţe de îmbogǎţire a chipurilor, formatele pânzelor recente – prelungi sau mult orizontale, dispuse (sau nu) în polipticuri – prilejuiesc decupaje anatomice care potenţeazǎ în primul rând „portretul” mâinilor. Cu soluţii compoziţionale aproape de gros-plan, eroii picturii Doinei Botez au un hedonism savuros, de baroc mefistofelic. La propriu şi la figurat, „Mâinileˮ pictoriței gesticulează amplu-manierist între catifelele culorii.
O dexterǎ a laviului colorat şi al reveriei finei linii pe albul hârtiei-carton, Doina Botez va ataca în uleiuri sau acrilic, cu o poftǎ carnalǎ, elasticitatea pânzei de pictură. Din vastul areal al graficii, sunt valorizate când adâncimile de moar ale laviului acuarelat, când tăria sonoră, echivalând cernelurile de imprimare. Pictoriţa aşterne, cu deliciu, strǎluciri de pastǎ în alunecǎrile cuţitului de paletǎ. Revine rǎzuind, lasǎ atingeri alburii sau şarje gestuale de culori tari care conferǎ densitǎţi minerale, de perete vechi, scenelor sale cu amintiri din Ovidius şi Suetonius. Doina Botez iubeşte verdele, roşul, violetul conjugate cu luminii aurii sau albastruri de vecernie. Şarja ei vitalistă se poetizează apoi prin efectul de strat exfoliat sau de atingere cu polenuri din semitonuri. Sunt, finalmente, pigmenţi ai cornului abundenţei prinşi parcǎ în antica tehnică a cerii topite.
Testo critico in catalogo della mostra personale „Alchimii Afective” alla Galleria Romana, Bucarest, novembre 2014
Flaminio Gualdoni
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Flaminio Gualdoni
Il corpo dell’immagine
1. È il 1989, anno fatidico nella storia della sua Bucarest e dell’Europa tutta, quando Doina Botez si trasferisce definitivamente a Roma.
Certo, il contesto internazionale non le è ignoto, ma lo strappo biografico la costringe a delucidare in modo netto la propria identità e le proprie vocazioni d’artista.
Viene da un’intensa stagione di grafica, d’illustrazione, di scenografia. Il suo rapporto con il figurare è essenziale. È montare un teatro di visione a partire dall’esperienza sensibile, è espandere il sentimento dell’esistenza sino a rendere protagonisti, come voleva Socrate, “i moti dell’anima”. È filtrare e attualizzare le tradizione lunga dell’immagine con valore simbolico e allusivo forzandone gli aspetti epidermici di referenza, coagulando piuttosto un grumo ad alta valenza poetica anziché prosaica.
Botez si trova in una condizione atipica, rispetto agli autori della sua generazione. L’arte ridotta a dibattito sull’arte, il gioco intellettualistico per cui l’arte contemporanea, bamboleggiandosi nella contemplazione di se stessa, è giunta ormai a concepirsi come una mera fantasmagoria autoreferente e svuotata, spettacolo di immagini figlie d’una accecata malia narcisistica, le sono geneticamente estranei. Non le importa la novità del modo, la blague culturale, il birignao mondano. La pittura è pittura, senza se e senza ma. Conta ciò che se ne fa, e soprattutto il perché: scriveva Francesco Arcangeli che “l’arte, l’opera, quel pezzo di tela o di tavola, quella superficie piana e convenzionalmente rettangola è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira”. Il quadro è, per lei, immagine necessaria, un fatto dell’anima da scontare in pittura e offrire all’esperienza mentale ed emotiva dello spettatore, nel modo più intenso e diretto possibile.
Botez è spinta da un’urgenza diversa da quella dell’omologazione mondana della sua figura d’artista. Il suo lavoro ha altri tempi, orizzonti diversi. Non si tratta, beninteso, di un atteggiamento di diserzione o di antagonismo verso la modernità. Semmai ella può dire, con Roland Barthes, che “d’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente”, perché la prospettiva avvincente è quella lunga della durata, dell’intensità, della pittura di valori in luogo del gioco del linguaggio.
Dunque l’artista sceglie per se stessa l’appartatezza ispida del poeta – e non a caso tra i suoi compagni di strada figurano personaggi come Mario Lunetta e Plinio Perilli – e una forma di coltivata inattualità, a protezione d’una operosità concentrata e silenziosa nel farsi, quanto clangorosa negli esiti espressivi.
2. “Nella sua fase iniziale la pittura di Doina Botez è stata un grido trattenuto, un’esclamazione di piacere o dolore davanti allo spettacolo quotidiano dell’esistenza. Mi ricordo molto bene i suoi dipinti della fine degli anni ’70: erano una parte addolorata di una città addolorata”, ha scritto Grigore Arbore Popescu.
Erano, soprattutto, un vedere oltre le clausole del racconto, della trascrizione, addensando stati emotivi, avvicinando, per dire con Kandinskij, l’orecchio dell’anima alla bocca dell’arte. Il primo tempo italiano rafforza tale disposizione, affinandola sul piano compositivo e dello spettro coloristico.
Botez matura un figurare dalle concitazioni rattenute, teso su diagonali e fasci curvilinei marcati, il cui epicentro è un’idea, più che di individuo, di corpo vivente in una situazione ansiosa, talora allarmata. Si avvia qui l’esplorazione della dimensione anche sensuale dell’immagine, sino alle sue implicazioni profonde e oscure.
La radice è quella dell’oltranza stilistica che segna il passaggio tra ‘800 e ‘900, con Munch a fare da figura di riferimento, e l’impurità assunta come sovratono e accelerazione affettiva della forma.
In Il superamento del naturalismo, 1891, Hermann Bahr aveva indicato chiaramente che “quando il classicismo dice ‘uomo’ intende ragione e sentimento e quando il romanticismo dice ‘uomo’ intende passioni e sensi; e quando il Moderno dice ‘uomo’ allora intende nervi”, teorizzando che è venuto il tempo della Nervenkunst. Ciò che il corpo aveva rappresentato per secoli, lo specchiamento nella perfezione del divino, la bellezza che trascende l’esperienza ordinaria, la centralità di un sentirsi comunque in un rapporto pronunciabile con la natura, si fa rottura e deriva, consapevolezza acuminata dell’inconoscibilità dell’umano, i cui meandri esplorare in cerca d’una luce possibile.
Botez riannoda quel filo alla trama di esperienze che nel ‘900 hanno scritto non una modernità ottimistica, ma una radicale perdita di centro, un’angoscia persistente, il dubbio insanabile.
Il corpo, dunque. Secondo una linea che da Munch e dalla Wildheit tedesca – ma con memorie persistenti dell’umore di simbolo e dell’arabesco viennesi – porta al surrealismo iconograficamente più metamorfico e visionario, André Masson e il Picasso degli anni ’30 in testa, e a Bacon.
I corpi di Botez si costituiscono per schematizzazioni brusche, assettate lungo linee di forza sinuose e potenti, come addensamenti dello spazio. L’artista nasce dal disegno, da un tratto fluente ed energeticamente accelerato, e questa filigrana si legge comunque nello stratificarsi elaborante della materia.
Ora tuttavia, in questo primo tempo romano, le dominanti brune e grigie poste appena in vibrazione da una luce timida prendono a dialogare con accenti diversi: e sono celesti e viola, rosa e voglie di bianco, che si concedono al fluire accelerato delle pennellate, come brividi che animano gli spalti serrati dalla materia dominante.
3.
“L’individualità di Doina si manifesta così per azzardi continui tra il momento lirico e il momento costruttivo”, osserva Lunetta nel 1991, perché “questa pittura che insegue la forma dentro il magma, il profilo definito dentro la cecità delle viscere, necessita, per dispiegare tutta la sua struggente volontà di comunicazione, di presentarsi, per così dire, quasi nel corso di una colluttazione e di un conflitto. È una pittura che genera allarme, non pacificazione contemplativa. Una pittura sapiente e rapida, tutta spinta sull’impeto, ma d’altronde sempre capace di organizzarlo entro una sintassi decisa, che impone allo spazio della tela la propria presenza e le proprie cadenze”.
È chiara la lettura di quella stagione di Botez. Mai scatta per lei la trappola dell’effusione dispiegata senza controllo. Mai, soprattutto, il cedimento alla sensiblerie che il luogo comune ha reso stereotipo femminile.
Il controllo del processo pittorico, dei suoi tempi, vi è ferreo, l’artista spinge semmai la propria coscienza della costruzione dell’immagine a un grado di acuminatezza che non imbriglia la pulsione inventiva, ma ne distilla gli umori profondi.
Lo struggle non è nelle fattezze della figura, ma nella sua natura prima di corpo di pittura, equivalente d’un rimuginio sul corpo fisico che mira a intuirne l’identità profonda, il mistero della sua sostanza e del suo farsi apparenza: e qui il femminile di Botez assume qualità piena e non retorica.
Botez si avvede presto che una chiave per rendere ulteriormente efficace il proprio impianto espressivo è sfruttare pienamente le possibilità offerte dall’impianto tematico, in una sorta di raddoppio concettuale di quanto già avviene sul piano specifico del processo pittorico.
Ancora, è la grande tradizione novecentesca (con tutto quanto essa comporta sul piano dei riferimenti storici di lungo corso) a offrire un modello problematico fruttuoso.
È, in un primo momento, il tema della maschera e di scene carnascialesche: poi, su un piano di remitizzazione esplicita, quello di satiri e ninfe, di baccanali, di collisioni potenti tra dionisiaco e voglie d’apollineo, tra un corporeo che viva in pieno le proprie vitalissime implicazioni animalesche e sia insieme in grado di ripensarle, di ripensarsi.
Ciò spinge Botez a un à rebours iconografico in cui l’originario impianto ad alto tasso di espressività si media con asserzioni tematiche forti, derivate da una frequentazione tutt’altro che pedissequa dell’antico. Osserva giustamente Claudio Strinati che l’artista “non è una classicista attestata su posizioni arcaiche ma è un’artista nutrita di classicità senza alcun coinvolgimento di rimpianto o riproposta di ciò che è irrimediabilmente perduto. È artista del nostro tempo che attinge, però, dalla classicità un’idea fondamentale che funge da orientamento per tutta la sua opera. E questa idea è proprio nel criterio della continua e incessante trasformazione delle forme, della metamorfosi intesa come integrazione di momenti opposti ma sempre compatibili l’uno con l’altro”.
È della fine del decennio ’90 una serie grafica, preannunciata da alcuni fogli degli anni precedenti, di notevole interesse. Sono acqueforti e tecniche miste in cui Botez riversa l’elemento essenziale della sua intuizione, una capacità di auscultazione del nucleo psichico d’invenzione che si fa situazione plasticamente vivida e di modificazione fisica: anche in questo caso è il corpo dell’immagine a farsi pienamente titolare dell’espressione.
L’innaturalezza rappresentativa si rafforza perché assume non solo dalla tradizione nuova del ‘900, ma anche, nell’impianto d’immagine e nella concezione e sviluppo della scena, più esplicitamente dal “far grande” dei secoli nobili dell’arte. In altri termini, Botez instaura e alimenta una forma di complesso e sottilmente nevrotico manierismo.
4.
Nel 2000 l’occasione propizia per misurarsi ancor più apertamente con i fasti pittorici antichi proviene a Botez dalla commissione di decorare una cupoletta nella cantina Mastroberardino di Atripalda, nell’Avellinese.
Il tema che s’impone è quello bacchico, e la struttura del luogo richiede di necessità di misurarsi con una composizione che rimemori il moto circolare ascendente verso il culmine della cupola.
L’artista declina una versione ulteriore del montare spiraliforme dell’immagine, che si fa anche avventura d’una luce alta e straniata. Deve rinunciare, qui, alle certezze della materia spessa, del contraddittorio fruttuoso tra spatolate piene di materia e nettezza delle fluidità grafiche.
Enuncia il suo teatro arioso di figure, ma l’intonazione complessiva è data dal trascorrere del clima visivo dai rossi sanguigni e dai celesti affatturati alla dominante d’un giallo straniato, come disagiato.
Non è un trionfo della natura, ma un mistero che si enuncia. Non è un’allegoria, ma una visione tutta d’anima in cui si emulsionano umori diversi, dall’aroma cinquecentesco al fregio tardo-ottocentesco, quando tutto si riduce a citazione illanguidita: qui no, la cifra è come ribaltata, la sottrazione estetica che Botez attua altro indica, una sorta di condizione tutta mentale, un picco psicologico reso immagine d’impianto classico.
A emergere da questa esperienza pittorica, occasione in effetti rara per l’artista contemporaneo, è la convinzione della possibilità ulteriore di forzare un affondo iconografico che del mito di faccia scudo per esplorare definitivamente, senza remore, la propria complessa dimensione psicologica.
La chiave è quella far sì che la figura, assunta più nettamente in primo piano, forzi le condizioni spaziali: essa non è là, slontanata nella sua distanza abitata da grigi petrosi e da bruni d’ombra, ma monta alla superficie per farsi presenza, in un “dove” che è direttamente condizione emotiva e intellettuale del riguardante.
Superficie, e naturalmente, giusta la lezione del ‘900 maggiore, tarsia, con quel segnarsi ormai esplicito dei contorni a reggere la pressione dei sovratoni asciutti e bruschi, sempre sottilmente acidi, d’un colorire manierato che ora s’impone con autorità di protagonista.
5.
Botez sa, sin dai suoi inizi, che la sua pittura non può essere pacificata, che l’inquietudine e il dubbio le sono connaturati. Percorre come lenticolarmente, con sguardo penetrante sino al punto da straniarsi, i luoghi identitari del corpo: volto bocca mani, su tutti. Scava situazioni continuamente ambigue, tra eros e avvertimento d’oscuro disagio, in odore di perdita. Sempre, situazioni in cui l’identità è come in bilico, in transito, è e può non essere.
I colori che presiedono il nuovo clima visivo sono focosi, ardenti, avvampati, rossi saturi e viola, verdi forzati allo stridore, celesti taglienti e inquieti. La loro evidenza è scabra, la contaminazione li intorbidisce ma insieme li amplifica, la stratificazione di zonature piene e forti e di movenze sensuose e urgenti induce una lettura fervidamente discontinua, come d’un respiro che prema. Essi assumono, anche, un retrogusto di simbolo che ancora una volta rimanda, mutatis mutandis, ad aromi fin de siècle francesi e viennesi.
È notevole osservare come Botez si ponga ora in modo esplicito e problematicamente non banale la questione del formato del dipinto. La marcata verticalità o l’orizzontalità, non immemori d’un certo gusto secessionista, chiariscono che non ci troviamo di fronte a figure ambientate, ma a immagini emblematiche, che ostentano la loro evidenza precisa e forte, perché esse non sono parte di una visione, la sono la visione.
Naturalmente tutto questo corrisponde a un ricorso ancor più accentuato alla tematica metamorfica, a partire dallo spunto inesauribile di Ovidio, dal quale trae il titolo anche il trittico Metamorfosi, opera tra le più impegnative della metà del decennio scorso. Da Eco a Cefiso e Liriope, l’intero apparato di motivi del mito di Narciso è oggetto delle invenzioni di Botez, che ha dedicato riflessioni anche a figure come Chimera, Europa e Leda.
Le implicazioni di tale repertorio tematico sono evidenti, e riguardano la tensione dell’artista a perimetrare la propria identità e lo spettro dei suoi territori psicologici ricorrendo a oggettivazioni tematicamente consone, non meno di tematiche come l’ebbrezza, il sogno, l’insonnia, che presidiano la zona grigia in cui l’irrazionale e la coscienza conducono una lotta non impari ma forse senza senso
(“è un’atmosfera di notturno con luci d’apparizione, una sorta di margine peccaminoso della luce e della forma”, m’è accaduto di scrivere altrove), e che invera perfettamente quella che W.H. Auden ha battezzato a nome di tutti The Age of Anxiety.
Si dice d’anima, ma si dice allo stesso tempo d’una consapevolezza drammatica del corporeo e della sua implicita animalità, quel vivere dei sensi e nei sensi che fa degli uomini i brotòi, avvinti alla loro condizione inflessibile di mortali.
6.
S’è detto all’inizio della condizione di inattualità sostanziale che Botez ha scelto per se stessa. La sua pittura è ostica, chiama lo sguardo in virtù dei suoi accenti fascinosi ma subito si sottrae al compiacimento, al godimento, imponendo la propria presenza inamena.
L’artista ha scelto di non farsi esponente dell’“art post-auratique” fatta per “le monde mondain de l’art”, per citare Yves Michaud, e allo stesso tempo di non farsi paladina o vessillifera di qualcos’altro.
La sua pittura è un “a parte” continuo, una solitudine coltivata e lucida, una dickinsoniana “condizione scalza” che non presume e non pretende riconoscimenti. È un fatto difficile e necessario, talora doloroso.
Straniate non sono solo le sue immagini. Estranea, irrevocabilmente, è la loro presenza al mondo. Ma proprio da ciò esse traggono la loro forza, una durata riverberante di coscienza che ne amplifica la lettura, quando non sia sommaria o distratta, quando non sia ottusa dalla transesteticità del banale.
Esse sono accidenti che ci avvertono, nella loro discontinuità esteticamente aggressiva, che un’altra coscienza è possibile, perché il senso dell’arte non è un attributo di circostanza, ma un valore inderogabile di cultura.
Testo pubblicato in qualità di autore nell’ l’album monografico “Doina Botez, Il corpo dell’immagine, opere 1989 -2013”, Skira Editore, 2013
Anna Barricelli
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Anna Barricelli
ALCHIMIE DELL’ANIMA: IL MITO E LE SUE METAMORFOSI
La pittrice d’origine rumena Doina Botez, per elezione cittadina romana, ha saputo coniugare nelle sue tele i colori squillanti delle tradizioni popolari del suo Paese natale con i portati di un espressionismo storico presente anche nelle avanguardie artistiche della Romania fra gli anni ’10 e ’50 del ‘900.
I soggetti delle sue opere vanno però spostati più indietro nel tempo e collegati alle antiche mitologie greco-romane tramandate da Ovidio nei distici elegiaci delle Metamorfosi.
L’artista è interessata in particolare al mito del giovanetto Narciso, vanesio ammiratore di se stesso in uno specchio lacustre, e che rivisita quasi in chiave psicoanalitica.
L’elemento essenziale dell’evento è l’acqua, sorgente di vita oltre che di rinascita, che si fa specchio, doppio ed eco: non a caso Eco è il nome della ninfa che ama Narciso di un amore non corrisposto che la distruggerà – Dissoluzione di Eco. Ma l’acqua restituisce solo l’immagine riflessa dell’uomo, epifania smagliante in superficie, sustanziata però dalla torbida essenza dell’acquitrino: Dittico con Eco allo stagno e Memorie dell’acqua, come nelle Metamorfosi 2 (vedi catalogo della mostra personale in Castel Sant’Angelo di Roma del 2009) dove Eco nel suo continuo divenire si sdoppia in Ego ed Es condizionati nell’azione da Praxis o da Furor.
La metamorfosi avviene in momenti successivi, in una sequenza cinetica di fotogrammi che possono continuare anche nei ritmi calibrati delle dita di ballerine spagnole, o nei codici cifrati delle Mudra di danze dell’India e dell’Asia.
La tecnica pittorica mista di olii e acrilici rifinita da velature sovrapposte e poi graffite con la spatola, concorre a creare un diaframma fra soggetto e spettatore in una visione prospettica il cui fuoco può essere acceso all’esterno o all’interno del fruitore stesso che, come in uno specchio, ne ricava un appunto autobiografico.
La fragilità dell’Io e Il bacio della maschera potrebbero intitolarsi anche la maschera e il volto, perché in realtà si alternano le due maschere teatrali della commedia classica in un gioco alternato delle parti.
Il ritmo sempre più dinamico del racconto si svincola progressivamente da una forma conclusa e plasticamente apolinea per immergersi nella pittoresca estemporaneità illustrativa di Baccanali sacri a Dioniso: altro tema già affrontato dalla Botez nella cupola e nelle vele della cantina d’arte della casa vitivinicola Mastroberardino di Atripalda, dove, nelle nozze di Bacco e Arianna, il “doppio” si evidenzia ancora nel dimorfismo del Bacco con la testa di capro e della donna leopardo.
La libertà dalla costrizione del segno evidenzia l’aderenza ad un espressionismo fantasioso e surreale, non soltanto mutuato da Munch – come nel panello centrale del trittico Metamorfosi 2 – ma soprattutto da una cultura lontana nel tempo, ma più vicina topograficamente, quella del nord-ovest europeo e delle Fiandre, che ebbe uno dei suoi maggiori esponenti in Jeronymus Bosch, precursore del surrealismo, “inventore nobilissimo, maraviglioso di cose fantastiche e bizzare” secondo quanto riferisce lo storico Guicciardini.
Il diformismo delle figure della Botez, la deformazione caricaturale dei volti, come quelli del Cristo che porta la croce di Gand eseguite da Bosch lo dimostrano con chiarezza.
La visione artistica della pittrice, come lei stessa afferma, Alchimie dell’anima, ha trovato la sua pietra filosofale nell’attualizzazione del mito alle problematiche e alle angosce dei tempi reali.
Testo critico in catalogo della mostra personale „Alchimie dell’anima” alla Galleria Mediterranea, Napoli, ottobre 2012
Claudio Strinati
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Claudio Strinati
La mostra di Doina Botez può veramente definirsi come mostra di “ricerca” nel senso più alto e nobile del termine. E’ vero che un termine del genere è abusato nella critica d’arte ma mantiene una sua piena legittimazione ed è, nel nostro caso, l’autrice stessa a orientare l’osservatore verso una direzione particolare in cui forte creatività e sottile spirito critico convergono. La mostra si chiama, non a caso, “nosce te ipsum” ed è chiaro, anche solo esaminando il senso delle varie sezioni in cui la manifestazione è divisa, come l’indicazione della pittrice sia chiara e perentoria.
Fonte primaria di ispirazione è nelle Metamorfosi di Ovidio, un’opera letteraria che per secoli è stata punto di riferimento imprescindibile è indispensabile per innumerevoli esperienze figurative. La Botez, tuttavia, non è una classicista attestata su posizioni arcaiche ma è un’artista nutrita di classicità senza alcun coinvolgimento di rimpianto o riproposta di ciò che è irrimediabilmente perduto. E’ artista del nostro tempo che attinge, pero, dalla classicità un’idea fondamentale che funge da orientamento per tutta la sua opera. E questa idea è proprio nel criterio della continua e incessante trasformazione delle forme, della metamorfosi intesa come integrazione di momenti opposti ma sempre compatibili l’uno con l’altro. Domenico Guzzi parlò per la nostra artista di procedure per “apposizione” di materia e nel contempo di “sottrazione” della stessa. E, in effetti, l’eminente e compianto studioso aveva visto come sempre molto bene nella sostanza del tessuto figurativo di cui constato correttamente l’impossibilità di stabilire una definizione univoca. Ed è certamente vero, per sviluppare una tale riflessione, che nella nostra pittrice è possibile rintracciare matrici espressioniste contemperate da una dimensione apollinea che la rende del tutto peculiare nel panorama artistico attuale. Questa mostra, allora, rende conto di un aspetto cruciale dell’artista densa di contenuti stratificati e nel contempo di splendida evidenza formale. Grigore Arbore Popescu ha persino evocato la grande figura di Munch per suggerire come dall’opera della Botez si levi una sorta di potente grido attutito pero da una dimensione contemplativa che e un po’ la quintessenza della presente manifestazione.
Per noi è grande la soddisfazione di poter ospitare nel suggestivo spazio del Castello un’artista che ha indubbiamente un messaggio universale e una forte presa su chi sia veramente appassionato al mutevole ma formidabile linguaggio della pittura.
Testo critico in catalogo per la presentazione della mostra personale „Nosce te ipsum”, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Sala delle Colonne, Roma, ottobre 2009
Domenico Guzzi
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Domenico Guzzi
Vedendo i dipinti, recenti e meno recenti (e, comunque, tra circa il 1997 ed il 2004), di Doina Botez – «[…] venuta da lontano, dal¬le fareste cupe e dure dei Carpazi […]», scriveva nel 1990 Ugo Moretti – si crede che, prima ancora che da certa loro narratività, dalla quale le polarità di oscillazione si com¬prendono tra certe emersioni di attive «me¬morie» ed alcune affermazioni e conclusioni simboliche (narrazione, d’altra parte, cui ri¬teniamo che la pittrice non saprebbe rinun¬ziare, reputandola fondamentale della pro¬pria esperienza), l’analisi debba anzitutto soffermarsi sull’osservazione della materia. Una materia che, non di rado e in alcuni «luoghi» dei dipinti, appare ampiamente elaborata; «luoghi» su cui capita che pur si colga un «grumo» lasciato dal passaggio del pennello. Denso e significante «spessore» che, in altra parte dello stesso dipinto, può accadere che si osservi convivere con solu¬zioni, viceversa, maggiormente «rarefatte», se non proprio «pellicolari». La singolarità di tale impegno materico è, certo, testimo¬nianza di un «mestiere» (la Botez, dopo stu¬di artistici, inizia ad esporre nella sua Buca¬rest nell’ormai lontano 1978), di un intende¬re, ancora, il far pittura quale elaborazione di una «visione» (che «[ … ] non attinge al quotidiano [ …]», come nel 2000 sosteneva Giorgio Di Genova), in pari tempo forte e sensibile. Si vedano taluni particolari. Si di¬ce, ad esempio, d’una tovaglia su un tavolo in linea obliqua, attorno alla quale siedono personaggi -ed è, questa, tensione ad una spazialità: Esordio della Chimera del 2002; piano d’appoggio su cui campeggia un’«alzata» ricolma di frutti – e si constati certa tensione, propriamente in ragione della elaborazione materica, ad una resa in termini di pittura dello stesso «tessuto». Il che, ben inteso, non vuol anche significare tensione alla «mimesi», ché non sembrerebbe davvero questo, tutt’altro, il problema della pittrice. Si vedano, ancora, cert’altri particolari nel «polittico» Rosso di sera del 2003 (e già l’adozione «polittica» suggerisce un rapporto con la storia). Ci si convincerà ulteriormente delle ragioni di quell’utilizzo. Allo stesso modo in cui ci si avvedrà che la Botez può anche giungere alle proprie soluzioni (che, per quanto detto, è da creder che siano per nulla casuali, quanto inseguite e ricercate), non solo per via di «apposizione» di materia-colore (da intendere come anche materia-luce-colore), ma per pari sottrazione della stessa. Ed ecco, allora, certi brani ottenuti «raschiando» la materia, sino alla sola indicazione d’una «traccia». Sulla quale, a volte, la Botez e in punta di pennello, non mancherà di tornare, come a «ricamare» un motivo che è, in ugual maniera, decorativo e strutturale. Diciamo, in sostanza, che la consuetudine con la materia può, nell’accennata convivenza con altrettante «rastremazioni» (ancora in Rosso di sera si veda come i riferimenti antropomorfi siano assai meno densamente elaborati), convincere d’una qualche meditazione di ascen¬denza «informale».
Detto qualcosa, dunque, di quel che, rispetto all’articolazione narrativa, sembrerebbe l’e¬videnza meno «appariscente» di tale pittura (ma determinante e «salvifica», per quel che ci riguarda), non rimane che soffermarsi sui «motivi» iconografici che, come non di ra¬do, sono quelli i quali, e a tutta prima, mag-giormente configurano le possibilità di un’a¬scendenza culturale. Per i quali «motivi», e sui quali, sono altresì state scritte pagine pertinenti negli anni a noi più prossimi.
Non c’è dubbio che la «fantasia» della pittri¬ce (per la quale vengono in mente certi contemporanei spagnoli) – «fantasia» resa evi¬dente per qualità di impostazione, nonché per talune e palesi «trasgressioni» segniche e formali, ma anche, e soprattutto diremmo, per tensione alla complessità simbolica di un narrato – tragga ispirazione dalla lezione «espressionista». Come ha giustamente rile¬vato Flaminio Gualdoni, recentemente pre¬sentando la Botez nel catalogo d’una mo¬stra alle «Logge dei Balestrieri» (Repubbli¬ca di San Marino): «[ … 1 In primo luogo, la lezione alta e non univoca – scrive – della vicenda espressionista, quella della Ner-venkunst che, tra fine Ottocento e primi Novecento, segna l’irrompere stesso del versante dionisiaco, legittimato ormai co¬me polo ineludibile dell’apollineo, entro l’orizzonte delle rispettive estetiche [ … ]». Un espressionismo, dunque, delle «origini».
Una pari affermazione, e sin dal 1999, in un testo di Paolo Levi: «[ …] pittrice di chiara, derivazione espressionista. Non si tratta di parentela generica, bensì di una radice spe¬cifica che risale all’espressionismo classico, quello nordico, fauve, del primo decennio del secolo, tanto per intenderci [ …]». Allo stesso modo in cui Mario Lunetta nel 1991 poteva, da par suo, mettere in chiaro che «[ …] Parlare di espressionismo barocco è fin troppo facile, di fronte a questa pittura. Eppure, a ben vedere, il gioco delle prospet¬tive scorciate e sghembe e l’apparizione del¬le figure quasi costantemente colte in situa¬zione dinamica (e, ça va sans dire, innatu¬ralistica) rimandano forse più a sontuosi tagli cinematografici, a inquadrature in¬quiete e impossibilitate a fissarsi, a tempe¬rature alte e ventose in cui volano colpi, e si avvitano vesti, capigliature, respiri […]».
Richiamo all’«inquadratura» (ed è riferi¬mento, dunque, alla «struttura» dell’immagi¬ne), che sembra essere assai significativo, e per più di un motivo. Non solo quelli cui ac¬cenna Lunetta, ma per virtù di un costante richiamo al dispiegarsi d’una «vicenda» , benché criptica a volte. I personaggi, infatti, sono sempre dichiarativi d’una situazione, d’una condizione d’esistenza. La loro ge¬stualità, allora, non è affatto «gratuita», ma segue una logica ed una «disciplina» com¬positiva; gli spazi di reciproca separazione sono altresì interagenti: uniscono oltre che separare; le luci, infine, «battono» sul sog¬getto, le ombre avvolgono il rimanente. La pittura della Botez è a «camera» fissa sulla scena. Ciò vuol significare che essa, com’è naturale, inquadra tutto, ma, soprattutto, quel che è «messo in luce» dalla «sceneg¬giatura».
Roma, ottobre 2004