Flaminio Gualdoni
Flaminio Gualdoni
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Flaminio Gualdoni
Sono vari e complessi gli elementi che Doina Botez coinvolge nel proprio processo di invenzione pittorica.
In primo luogo, la lezione alta e non univoca della vicenda espressionista, quella Nervenkunst che, tra fine Ottocento e primi Novecento, segna l’irrompere stesso del versante dionisiaco, legittimato ormai come polo ineludibile dell’apollineo, entro l’orizzonte delle aspettative estetiche.
In secondo luogo, con perfetto balance intellettuale, il ricorso a iconografie non facoltative, legate anzi per congeneità proprio a quel medesimo orizzonte: che siano figure di danza, carnascialesche, oppure di baccanale.
Ciò le consente da un canto di schiudere un repertorio di echeggiamenti simbolici che riportano, per altra via, nuovamente alla transizione otto-novecentesca, come eccitando e facendo crepitare gli umori di simbolo sottesi alle svolte secessioniste. D’altro canto, la porta a recuperare in modo non longhianamente ortopedico uno strumentario iconografico che vale, per l’idea storica dell’arte, la rilettura in chiave autre delle persistenze „pagane” entro la tradizione rinascimentale e barocca.
Sono, i satiri e le baccanti di Botez, eredi del fasto lussurioso, intriso di magico e di ombre terragne, che dal controllo formale italiano, e dalla tensione alla deviazione formale pur sempre stilistica del Manierismo nostrano, sboccia, nel Seicento, nella visionarietà nordica e mitteleuropea, devota al riscatto dell’orrido, dell’eccesso, della dismisura, che corre tra Praga e le Fiandre.
Nessuna filologia, beninteso, in queste evocazioni; e nessuna ortopedia, va ribadito. Botez ha colto quell’umore, quel filo rosso sotteso al mainstream della storia dell’arte così come ce la raccontiamo, e l’ha ritrovato sotto la pelle estetizzante della cultura secessionista, una sorta di alito irrazionale e sensuoso, intimamente smisurato, che si coglie un po’ dovunque, a volerlo leggere, da Boccioni a Dix. E quell’umore ha deciso di distillare nelle sue pitture turgide, sontuosamente irritate, affidandosi a grafie pericolanti, a un comporre per squilibri e collisoni, soprattutto a un clima coloristico dalle dominanti sottilmente forzate.
Ecco, è proprio il valore coloristico l’elemento a un tempo reagente e scatenante di questo processo inventivo: il prevalere di rossi spinti sovratono sino a una sorta di vibrazione febbrile, il loro imporsi su tessiture imbigite di terre, su verdi e gialli e celesti disagiati, inameni, indotti a una condizione di straniamento estetico: è un’atmosfera di notturno con luci d’apparizione, una sorta di margine peccaminoso della luce e della forma: quando al pensiero s’affaccia l’ansia sensuoale che non passa per la ragione, impasto oscuro e fremente d’eros e di morte.
Testo critico in catalogo per la mostra personale organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Marino, Logge dei Balestrieri, Repubblica di San Marino, settembre 2003
Maria Teresa Prestigiacomo
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Maria Teresa Prestigiacomo – Milazzo, aprile 2001
NUTRIMENTI TERRESTRI TRA MITO E STORIA
I CARNASCIALESCHI CANTI PITTORICI DI DOINA BOTEZ
Carnascialeschi canti pittorici potrebbero definirsi le opere della pittrice rumena Doina Botez: essi si muovono su un canovaccio poetico-musicale che attinge a cadenze ritmico-cromatiche intessute attraverso opportuni contrappesi di luce, arcana e filtrata e di colore che l’artista, sapientemente, dosa, al fine di operare un alleggerimento della materia. Sempre a tale scopo, dal punto di vista tecnico, la pittrice adotta il sistema della stratificazione cromatica, in successione temporanea, cosicché il colore, strato dopo strato, attraverso una funzionale asciugatura, riesce ad offrire, all’occhio del fruitore, sottili giochi di trasparenze e di campiture, di piani e di volumi che solo una mano calma e paziente, come quella di una donna, la nostra pittrice di Bucarest, può realizzare, pur con notevole impiego di tempo.
Restando nell’ambito della similitudine musicale, si può affermare che la nota dominante sia il colore rosso; esso governa la partitura scenica di Doina Botez: il rosso della corrida nella plaza de toros, del dramma e della passione; il rosso del sangue che è nascita ed è anche Thanaton, il rosso inquietante ed intrigante dell’Andalusia e di Carmen, il rosso del vino dell’Ultima Cena (che è sangue di vita eterna), il rosso del vino della nostra tavola, del piacere e dell’ebbrezza dell’amore, “Quell’oscuro oggetto del desiderio” che rende quasi folle, per amore, il protagonista del noto film di Bunuel..
Consapevolmente, il rosso, per la Botez, sulle tele, in particolare, è consacrato al dio del vino, a quel Bacco che, fra le divinità, è quella che più si è avvicinata agli uomini: Dioniso, figlio di Giove e di Semele, uomo cresciuto libero (particolare da non trascurare in questa scelta pittorica) amante della caccia, uomo che esplicava il suo potere carismatico sulle belve feroci al punto tale da ammansirle. Fu proprio egli che creò la vite e volle offrire il vino a tutti gli uomini. Ovunque il suo corteo passava, con Ninfe, Satiri, Sileni e Baccanti, gli uomini erano felici. Allo stesso modo l’artista, con le sue opere, appare come “Il pifferaio magico” delle favole nordiche che conquista ed ammalia, con le segrete alchimie delle sue composizioni espressioniste.
In conclusione, il fascino delle opere di Botez è il fascino del Mito, d’Euripide e della tragedia greca, delle feste dionisiache, legate alle feste della vendemmia, quei Baccanali, le orgiastiche feste notturne (celebrate prima dalle sole Baccanti e poi estese ad entrambi i sessi) che, successivamente, nel 186 a.C, il Senato di Roma proibì poiché non ritenute conformi al buon costume ed al decoro.
Dal mito, pertanto, trae linfa vitale questa pittura, del mito si nutre e in esso consuma le sue energie, come a ripetere un rituale “baccantico” di piacere e d’antica ebbrezza, noi e l’artista, insieme, attraverso un misterioso processo di proiezione/identificazione.
Ed allora? L’esito è l’individuazione, nelle sue opere, del nesso mito-rito nello specifico mito/rito/uso come organismo vitale di una cultura. La presenza di rituali iconografici similari, adottati in altre culture ed in diversi “campi d’immagine”, potrà leggersi come dimensione di riappropriazione di un universo simbolico percepito grazie alle connessioni archetipe esistenti. (Per essere più chiari, ad esempio, in campo pubblicitario, l’azienda Averna “vende” l’immagine del suo prodotto, l’alcool, identificando il piacere da esso derivante, al “piacere della vita”, con espliciti riferimenti ai rituali d’uso corrente dell’alcool “funzionale” alle relazioni pubbliche e sempre presente, in tavola, in occasioni di festa.)
A questo punto, è chiaro come la rumena Botez accolga in sé il mito di Bacco e delle Baccanti, “mitici latini”ed approdi, dal Mito alla Storia, inserendo nel suo germe pittorico I Saturnalia, quelle antiche feste dedicate a Saturno (Cronos) che la leggenda vuole abitante della Saturnia Tellus (Italia) e che la Storia di Roma ricorda giacché a questa divinità erano dedicati i Saturnali, quelle feste che si celebravano a metà Dicembre ed in cui era consuetudine fare banchetti, gozzovigliare e scambiarsi doni, accantonando le divisioni sociali e concedendo la simbolica libertà agli schiavi.
Da qui, dai Saturnali, l’amore di Doina Botez per il Carnevale, occasione unica per il popolo oppresso del millennio scorso; infatti, solo nel periodo carnevalesco era concesso il diritto di satireggiare Signori e padroni, senza, per questo, invischiarsi nelle trame della Giustizia che, in quei giorni particolari, non era amministrata.
Vivo appare l’interesse della pittrice, attraverso i temi carnascialeschi, per il mistero dell’uomo e del suo doppio, per la maschera ed il volto, il sé e l’altro di sé, pirandelliano gioco di ruolo e delle parti, un gioco tutto siciliano o sindrome della doppia personalità: mister Hyde o dottor Jackil?
Il quesito a risposta multipla rimane aperto: resta l’amore per il Carnevale che si traduce nella rappresentazione iconica evocatrice del piacere sfrenato legato a quel periodo dell’anno, detto del carnem levare, che si perde nella notte dei tempi.
Amore, dunque, da parte dell’artista rumena, per detti rituali; sentimento che si traduce in un altro amore: quello per la libertà di parola, d’espressione, d’idee, quell’ edoné, quel piacere che prescinde le dimensioni spazio-temporali e che, nello specifico dell’arte, approda ad un tempo eterno, immortale che solo l’Arte vera, come quella di Doina Botez può regalare: a noi, uomini del terzo millennio in cerca di verità e di nuovi orizzonti, ed ai posteri.
Testo critico in catalogo della mostra personale”Nutrimenti Terrestri Tra Mito e Storia” alla Caruso Gallery, Milazzo, aprile 2001
Giorgio Di Genova
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Giorgio Di Genova – Atripalda, 2.12.2000
Doina Botez arriva in baccanale per la strada maestra del carnevale, perché precedentemente dipingeva il carnevale. Ha un significato, questo, vedremo… Tanto non è che siano due diverse espressioni il carnevale e il baccanale, sono due facce della stessa medaglia: una religiosa il carnevale, l’altra pagana, ma hanno tutte e due origine dall’inconscio collettivo della natura umana. E dimostra in questo caso che sono due momenti gemellari per cui l’aver cominciato intorno al ‘96 -‘97 a dipingere il baccanale è stata una consequenzialità non di poco conto, anzi del passaggio da una situazione più contemporanea come il carnevale, ancora si festeggia, l’altro ce lo hanno tramandato le storie mitologiche. E quindi ha due significati diversi, nell’ambito di una temporalità diversa, però attingono alla stessa matrice.
A guardare il mondo pittorico della Botez ci si avvedrà che ella non guarda al vero, alla realtà vera, quella che ci sta davanti tutti i giorni, ma piuttosto cerca di individuare una realtà interiore che per lei, come per tutti gli artisti, è più vera del vero che si vede. Per gli artisti, per i pittori la verità vera non è quella che si vede, non è quella che salta all’occhio, per dirla con un termine che ho usato spesso per la pittura informale, che ha usato spesso Wols, noto pittore informale oppure, spesso usato in riferimento alla pittura formale, ma è quella che viene da dentro, è quella che si proietta dall’interno verso l’esterno per poi concretizzare un’ amalgama che determina un linguaggio. Vedremo che poi tutta l’arte è sempre un linguaggio ma che appunto distingue l’artista dagli altri. Perché se l’occhio fosse un senso veritiero esatto, tutti gli artisti dovrebbero dipingere quando fanno un’opera la stessa cosa, cioè dipingono un ritratto, tutti i ritratti dovrebbero essere uguali, invece no, sappiamo che ogni artista ci mette del suo ed è quello che porta a far sì che un’opera diventa arte anziché una copia.
La Botez quindi non attinge al suo richiamo. Chissà se forse in questo suo recepire soprattutto gli stimoli e le pulsioni dell’Io profondo non ci sia un’obiezione sottile a quella che era una condizione dominante nel suo Paese quando appunto era ancora nell’ambito dei paesi socialisti. Voi sapete che c’è stata una grande diatriba tra l’occidente e i paesi socialisti sul piano proprio della concezione dell’arte. I paesi socialisti hanno sempre visto l’arte come un impegno sociale per poter indottrinare e per poter esaltare o celebrare certe situazioni: che è un fatto didattico, non didascalico, non di per sé artistico, perché, come vedremo, non è il “che cosa” si dice dell’opera ma il “come” si dice. Il realismo socialista invece ha sempre tentato di privilegiare la verità ottica a quella che era la verità espressiva per cui l’astrattismo è stato anche perseguitato, lo sappiamo benissimo, gli artisti sono stati impediti ad esprimere il loro modo di esporre…
La pittura, appunto, celebrativa dominante viene proprio forse dalla Botez all’interno messa in crisi, perlomeno dal suo modo di vedere, quindi è una sorta di obiezione, la sua, di non aderire a questo criterio. Ed è una sorta di sua licenza. Il carnevale è un periodo di licenza nelle regole della vita, lo sappiamo, a carnevale “ogni scherzo vale”, si impazza, si fanno delle insinuazioni abnormi, poi si deve ritornare, dalla Quaresima in poi, alla normalità. La Botez la sua licenza se l’è presa nella pittura, dipingendo il carnevale e dipingendo in una maniera diversa da quella che era appunto l’indicazione del suo Paese nei confronti appunto del realismo socialista. Si è presa delle libertà espressive accentuando certe deformazioni e prendendosi anche qualche licenza sul piano della rivisitazione di altre tappe del passato, come il barocco. Chi ha visto la mostra avrà trovato degli elementi baroccheggianti, naturalmente rivissuti con lo spirito d’oggi. Perché l’anima antica su cui la Botez ha proceduto è in realtà stata da lei messa, rimpolpata, ha fatto un corpo su di essa piuttosto moderno rispetto a quelle che erano le situazioni nel suo Paese.
Poi nell’84 la Botez ha vinto una borsa di studio, è venuta in Italia. L’Italia sappiamo è stata la patria della cultura figurativa fin dai tempi del Grand Tour dal Settecento all’Ottocento: finché Delacroix poi non ha rotto questa tradizione andandosene a Tunisi, nei paesi africani, proprio quindi in obiezione a quello che era lo spirito classico, classicheggiante .
È venuta in Italia e ha avuto naturalmente un aiuto fondamentale per la sua maturazione. L’impatto con l’Italia è stato quello che poi evidentemente l’ha convinta a stabilirsi. Dal ’89 stabilmente sta a Roma, si è fermata in Italia perché a Roma, in Italia, ha trovato l’ossigeno per i suoi polmoni della sua pittura. Il suo modo di fare si è cosi inserito nell’ambito della realtà contemporanea pittorica, tanto che quando alcuni anni fa me l’hanno presentata ed io subito l’ho invitata al Premio Sulmona nel ’98. Era già impegnata a realizzare questa sua rivisitazione del baccanale, del rapporto, perché poi c’è un fatto psicologico di fondo: la Botez parla dell’uomo, della doppiezza dell’uomo parlando del baccanale come prima aveva parlato del carnevale. Guardate i temi che lei adopera: c’è sempre la maschera, il carnevale, è chiaro, tutti pensano che la maschera serve per celare, per nascondere le vere sembianze. Non è assolutamente vero, la maschera viene scelta dall’ l’individuo per svelare le vere sembianze che sono dentro e che non si ha il coraggio di svelare nella vita quotidiana. La doppiezza dell’uomo è proprio in questo. E la Botez lavora su questo.
Ora è chiaro che fare una mostra della Botez in un’azienda vinicola come quella del Mastroberardino mi sembra che sia il non plus ultra, parla del vino… quello che mi ha molto sorpreso e divertito è l’allestimento di questa mostra: i quadri sono stati messi sulle botti. Quale luogo migliore mettere i quadri che parlano di Bacco e del vino se non sulle botti? E’ anche questa una trovata che va sottolineata perché molto spesso, proprio negli allestimenti delle mostre, non si adoperano delle situazioni significative come in questo caso.
Andiamo a vedere come lei si esprime perché qui abbiamo di fronte due modi di esprimersi di una pittrice: il quadro da cavalletto, alcune tecniche miste e alcune incisioni e disegni e, dall’altra parte una cupola. Se avete notato quella pittura succosa che sta nei quadri, la pittura che la Botez fa anche con la spatola, quindi diventa materica, dagli alti spessori, non è ripetuta nella cupola perché bisogna rispondere alle esigenze dell’uomo e della dimensione e della sistemazione. Gli artisti percepiscono molto bene che l’opera va assecondata secondo la collocazione. Un quadro si può mettere su una parete e quindi deve avere una sua pregnanza; il quadro è un francobollo di una realtà, una cupola, invece, ha le sue esigenze sia spaziali, sia visive, sia anche fruitive. Se avesse messo dei grumi di colore fatti con la spatola sulla cupola, questo avrebbe dato fastidio per le ombre che avrebbero determinato. Quindi abbiamo di fronte a noi da una parte i flashes di una sua immaginazione e nella cupola, invece, abbiamo un discorso, un racconto che è mitologico e al tempo stesso personale. Perché ogni artista quando dipinge non fa altro che parlare di se stesso, sia quando si fa l’autoritratto, sia quando dipinge altre cose. Ci sono dei pittori che si sono fatti tanti autoritratti. Pensate a Rembrandt: se n’è fatti da quando era giovane fino a quando era anziano. Perche tutti gli artisti sono dei narcisisti. Se non fossero narcisisti non farebbero gli artisti, farebbero un’altra cosa. Gli artisti sono megalomani, ma è giusto che siano megalomani. E quindi in questo caso, l’artista parla sempre di se stesso, quindi quando voi guardate le opere della Botez vedete lei, lei naturalmente in una forma di autoritratto che è simbolico – psicologico, non è reale, ha delle sfumature che vanno poi colte. Naturalmente questa è una piccola fase, piccolo brano del suo racconto che dura da anni e durerà tutta la vita. L’artista tende a ricostruire tessera per tessera, quadro per quadro, opera per opera, una sorta di autoritratto simbolico – psicologico che alla fine, quando se ne sarà andato.sopravvive. Tutta la vicenda, l’aspirazione di ogni artista è quella di sconfiggere la morte…. Questa è la volontà, il desiderio inconscio di ogni artista. Si danno da fare perche vogliono rimanere, vogliono esistere, vogliono che di ciò che fanno su questa terra, nella loro vita transeunta resti qualche cosa: è stato qui, ha fatto questo e ci ha lasciato il suo autoritratto psicologico – simbolico.
Ebbene la Botez, come io sempre dico, è una di quelle artiste che spiega molto bene che l’artista, vita natural durante, mutatis mutandis, non fa che dipingere sempre la stessa opera. Notate, sono piccoli dettagli, però sempre lei, ma se non fosse così un artista non lo si riconoscerebbe a distanza. Lo stile è ciò che si riconosce. La Botez anche nella sua cupola è diversa come struttura dai quadri perché lì, nella cupola, aveva esigenze diverse, ci doveva essere un racconto, ci doveva essere un movimento. La concavità del supporto e della superficie le ha creato nuovi stimoli. Se guardate bene c’è un racconto che è spiralico: nasce dal centro, si divaga, va a finire ai bordi circolari e poi ha quattro peduncoli, quattro vele. Ha voluto dipanare un racconto, e non è voluta andare a raccontare quello che è il mito di Dioniso – Bacco, cioè non è voluta riandare alle origini della civiltà – perché Dioniso e Bacco ci riguardano, come sappiamo dagli studi antropologici e mitologici – ha voluto invece andare a raccontare gli elementi che lo contraddistinguono. Allora ci sono le baccanti, ci sono i satiri e i fauni, c’è il caprone Bacco con Arianna e ci sono altre situazioni naturalmente soprattutto legate al vino, ai boccali, ai grappoli d’uva, ecc. Ma in questo, la Botez ha espresso di nuovo quel sentimento di doppiezza delle maschere, anche quando non ci sono le maschere. Guardate la Arianna nel riquadro di Bacco e Arianna: è deforme, cioè la maschera si incorpora nel viso perché naturalmente esprime se stessa in questo stato di ebbrezza e di libertà orgiastico come appunto erano i baccanali. La Botez ha interpretato molto bene questo con una sensualità che è molto diversa da quella che altri artisti invece hanno messo nei loro quadri… La Botez ha una sua integrità di visione, di concezione, ha un Weltanschauung che la porta all’ebbrezza, all’abbandono, che si esprime anche nei colori. Guadate i colori che lei adopera: i rossi, i verdi, tutti cantano, anzi, più che cantano urlano molto spesso perché, certo, il rosso poi è collegato col vino, collegato col sangue, collegato col sole. Infatti, in una delle vele – se vedete le quattro vele – in una c’è un viticcio, nelle altre tre ci sono dei fauni o satiri. Due hanno dietro i viticci, uno no. Uno ha dietro uno sfondo con un sole rosso, un grande cerchio, che poi è un pochino il simbolo di tutta la cupola, circolarità del sole – circolarità della cupola, piena di luminosità questa cupola.
Mi sono soffermato su questi elementi compositivi dell’opera proprio, come dicevo all’inizio, perche l’arte è un linguaggio e il linguaggio ha le sue regole, come la poesia. La poesia non è che non si esprime secondo certe regole, certe possibilità. La prosa è una cosa, la poesia è un’altra. Così qualsiasi altro elemento espressivo ha le sue regole, e le regole, se vogliamo vedere, ve ne indico una: guardate proprio il dettaglio di Bacco – caprone e Arianna, guardate le braccia, sono tutti pesi e contrappesi. Cioè la composizione è studiata in modo che un peso venga equilibrato da un altro peso. Questo è un modo che tutti gli artisti hanno senza magari a volte pensarci, ce l’hanno dentro… Se voi andate a vedere appunto questi elementi vedrete che quello che conta non è il “che cosa” viene detto, non è il soggetto ma il “come”! Sempre l’arte viene fatta dal come! Cioè l’arte è lo specifico linguistico che determina una situazione diversa da quella che è la normalità.
Frammenti della presentazione del Prof. Giorgio Di Genova in occasione dei vernissage della cupola “Nozze di Arianna” e della mostra personale di Doina Botez presso gli stabilimenti d’invecchiamento ed affinamento della casa vinicola Mastroberardino, Atripalda, 2.12.2000
Paolo Levi
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Paolo Levi
IL COLORE DI DIONISO
Doina Botez è pittrice di chiara derivazione espressionista. Non si tratta di parentela generica, bensì di una radice specifica che risale all’espressionismo classico, quello nordico, fauve, del primo decennio del secolo, tanto per intenderci.
Doina Botez, la qui sensuale e ricca tavolozza si trasforma sulla tela in una sinfonia di colori e di forme dinamiche, risponde al quesito – con questo ciclo tematico dove Bacco è di casa – sul rapporto tra la nostra contemporaneità e Dioniso.
In queste sue simbologie sceniche del quotidiano, il colore rosso domina con fare virtuoso e forte lo spazio della tela, si sparge sui capelli, lungo i corpi distesi („Baccanale I”), su di un tavolo da pranzo („La canzonetta”) ed è rosso l’abito della fanciulla in un „Tango” sfrenato.
Rosso come il sangue, rosso come il vino. Nell’antica Grecia, il vino simboleggiava il sangue di Dioniso e rappresentava la bevanda dell’immortalità. Nella tradizione biblica il vino è portatore di ebbrezza ed è anche simbolo dello smarrimento che Dio invia agli uomini per punirli per la loro infedeltà.
Cane e padrona ne „I due nel silenzio” sono appunto immagini di solitudine, di smarrimento, di indolente mutismo. La tematica del baccanale è il motivo dominante di un copione inquietante che potrebbe essere recitato sul palcoscenico della tela, all’infinito; esso mette in luce monologhi solitari, come nelle multitonali composizioni „Tempo di carnevale” e „Baldoria”, dove mai l’allegria fu ritratta in chiave cosi disperata.
Doina Botez gioca di pennello e di spatola; in alcuni tratti della composizione il colore pare ispessirsi, coagularsi in timbricità forti e trasparenti, in contrappunti di rosso-sangue e di bianchi improvvisi, avvertimento di possibili luminosità che non sono di questa terra.
E’ pittrice che conosce l’arte del disegno, che si percepisce sotteso al colore tracciato con violenza, vorrei dire con rabbia controllata, che sa essere gestuale, senza mai cadere nell’informale gratuito. Se, a volte, la forma appare sfrangiata, come dispersa nella materia cromatica, tuttavia i particolari di un corpo, o gli sfondi, conservano una loro allusività, una loro poetica riconoscibilità.
A livello formale il colore si stende e si forgia come una lingua di fuoco. Questo rosso è aggressivo, turbinoso come un sole che getta luce sui personaggi solo apparentemente attivi, che sembrano recitare in una commedia consumata, perché troppe volte replicata.
Per ciò che concerne una lettura prettamente simbolica della cromia, il rosso di Doina Botez, a volte associato a pochi tratti di giallo-oro, come in „Baccante”, incarna ardore, bellezza, forza generosa, eros folle, come appare anche più esplicitamente nel lavoro fortemente espressionistico dedicato alla „Lussuria”.
Vesti, capelli, corpi rossi. In queste opere di taglio barocco il rosso non è una dominante solo casuale per questa pittrice, ormai romana d’adozione. A Roma il rosso lo si respira nella scrittura invisibile della Città. „Il rosso – scrive Court de Gébelin – è il colore dei suoi generali, della nobiltà, dei patrizi, dei cardinali.”
E non si tratta solo di superfici cromatiche. Il potere seduttivo, irradiante, di questo colore ha sempre risvegliato l’interesse o la curiosità degli artisti moderni, da Van Gogh ai maestri dell’espressionismo. Il rosso è anche grido e dolore, dell’uomo e della natura. Ma ciò che colpisce maggiormente in queste ricerche figurative è che il nostro intento di decodificare i significati della presenza archetipica di Bacco in queste figure non si ordina su immagini precisate, bensì su volti e corpi informi che paiono improvvisazioni del pennello, o di una mano che si muove col fare accidentale della scrittura spontanea.
Da questi lavori viene in luce una lettura della tradizione pittorica europea, a cui si aggiunge la capacità, del tutto contemporanea e originale, di osservare i propri moti d’animo, di provare stupore ed emozioni e, quindi, di tradurli in immagine pittorica.
La tematica del baccanale è condotta con abilità e rigore stilistico. Si scorge in questi lavori una certa nostalgia per la grandezza dei maestri moderni, quelli che appartengono evidentemente al Museo interiore dell’artista, e uno fra questi è, certamente, Scipione.
Da tutto ciò si può dunque comprendere a cosa mira la poetica di questa signora della tavolozza.
Il suo modo di procedere espressivo si è gradatamente sottratto, nel corso degli anni, ad ogni impulso della immaginazione psico-fisiologica (e questo è evidentissimo nella magnifica impaginazione de „La fattucchiera”) per acquistare una sempre maggiore consapevolezza della poetica dei contenuti e dei messaggi visivi.
Doina Botez appare impaziente nel gesto pittorico. In verità, dipinge con fare „antigrazioso”, portando alla superficie ciò che si nasconde dietro le apparenze della gioia e del piacere. L’interiorità di questa artista appare divisa nel complesso e lacerante dilemma della scelta fra apollineo e dionisiaco, eppure lo sforzo dinamico che governa la sua mano fra questi due poli non costringe all’esclusione, ma consegna a chi sa guardare lo specchio delle sue stesse contraddizioni.
Torino, maggio 1998
Grigore Arbore Popescu
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Grigore Arbore Popescu
La tensione della contemplazione
Nel nome della modernità sono state proposte al pubblico negli ultimi decenni come campioni rappresentativi, per possibili direzioni dell’evoluzione dell’arte, innumerevoli produzioni d’atelier prive della capacità di condensazione di uno sforzo creativo rapportabile ad una seria riflessione sugli obiettivi della comunicazione. Il loro valore artistico è stato spesso confuso con l’immagine innovatrice loro attribuita da una buona parte della critica, specialmente di quella parte che tende ancora a proiettare nella creatività, come in uno specchio, il proprio narcisismo.
L’invasione di novità nel nome della modernizzazione ha riempito le gallerie e talvolta anche le case e le istituzioni pubbliche con oggetti inutili e la forza di suggestione o la capacità di evocarli è stata delegata alle interpretazioni dei galleristi oppure agli snobs in servizio permanente presso le „istituzioni dello spettacolo quotidiano”. Chi scrive non è un avversario della modernità ma solo un avversario degli abusi che nel nome di essa si commettono invocando il sacro principio della libertà di espressione, che nelle sue estreme manifestazioni propone il vuoto pneumatico come essenza, archetipo del percorso artistico. La salvezza dell’arte dal pericolo della dissoluzione non può aver luogo che soltanto approfondendo la riflessione sugli obiettivi della comunicazione attraverso l’immagine nelle condizioni dell’attuale evoluzione tecnologica. Il rapporto della comunicazione con la vita fa sì che sia impossibile per gli artisti responsabili ogni transazione con gli obiettivi programmati o non programmati della disumanizzazione dell’espressione.
Nella storia recente della pittura sono state poste spesso al posto di onore, con il concorso dei galleristi scaltri e dei critici compiacenti opere di scarsa o disarticolata capacità comunicativa. Ciò non è accaduto nella storia delle interpretazioni musicali, dove nessuno ha provato, almeno fino adesso, di proporre come punto di riferimento il concerto di una emittente di suoni disarticolati. Il fatto che gli obiettivi consolidati della comunicazione umana non sono cambiati in modo essenziale e che solo la tecnica della comunicazione evolve è un motivo di riflessione per molti artisti che si pongono in modo onesto il problema della finalità dell’intervento artistico senza assolutizzarne i mezzi. Doina Botez fa parte di questa categoria. Si è formata, d’altronde, in un ambiente culturale e artistico dove il culto della forma non era ancora alterato dal culto della formalizzazione. In altre parole la sua arte ha le origini non nel rifiuto dell’espressione eloquente, ma nella ricerca dell’adeguatezza di questa in un contenuto. In questo modo si può capire una gamma di stati d’animo, intensamente vissuti, quali chiedono imperativamente una certa veste grafica e coloristica.
Nella sua fase iniziale la pittura di Doina Botez è stata un grido trattenuto, un’esclamazione di piacere o dolore davanti allo spettacolo quotidiano dell’esistenza. Mi ricordo molto bene i suoi dipinti della fine degli anni ’70: erano una parte addolorata di una città addolorata; erano però anche una parte nobile e sorridente di un paese oscurato. Un’ombra leggermente minacciosa ha galleggiato già da allora sugli orizzonti non molto larghi delle tele dell’artista.
Se dovessimo seguire i canoni delle classificazioni stilistiche definiremmo la pittura di Doina Botez come una pittura di matrice espressionista. Senza dubbio l’artista ha sintonizzato l’udito alle impalpabili e non udibili grida dei quadri di Munch. Ha addolcito però la loro tensione filtrandole attraverso le gamme coloristiche di Baba e Ciucurencu, in una bizzarra originale combinazione, piena di vivacità. Il suo espressionismo sarebbe quindi temperato da una inclinazione verso la contemplazione che fa sì che le immagini artistiche abbiano quasi il carattere di radiografie colorate di certi stati dello spirito proiettate al’esterno, nella gente e nel paesaggio. Afe ineffabili contribuiscono talvolta a stemperare le tensioni latenti suggerite dalla spigolosità dei paesaggi o delle figure umane. I contorni si coagulano in forme chiaramente definite soltanto quando la luce solare si impone, quando la memoria ha dei riferimenti precisi, quando l’orizzonte si schiarisce. Questa oscillazione di Doina Botez tra nebuloso e chiarore, tra dinamicità e movimento congelato, mi sembra essere la testimonianza di una ricerca che ha per scopo non il perfezionamento tecnico del mezzo pittorico di comunicazione, ma l’identificazione dell’inquadratura psicologica della comunicazione e la sua materializzazione in un’immagine con attributi suggestivi.
Ci troviamo senza dubbio nei confini della comunicazione artistica di qualità, della comunicazione impregnata di significati e umanità.
Venezia, 1998
Franca Calzavacca
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Franca Calzavacca
Se le intenzioni della cultura contemporanea sono quelle di rintracciare la propria identità analizzando il passato, pubblico e privato, la ricerca attuale intorno al tema della pittura nelle varie accezioni del suo linguaggio indica nuovi orizzonti alle molteplici espressioni estetiche che compongono il panorama internazionale dell’arte visiva.
Le polemiche che hanno sempre accompagnato il lavoro di approfondimento critico sem¬brano ormai sostituirne una componente essenziale, precipitando il nostro operare nelle con¬troversie dell’interpretazione e vanificandone le intenzioni. C’è però un modo di esprimersi nella pittura che ci permette una sosta salvifica, una pausa sabbatica nelle diatribe su chi abbia il diritto di considerarsi il vero esponente dell’epoca di transizione in cui viviamo. Di questa alterità positiva scriviamo occupandoci dell’impegno intellettuale di Doina Botez, pittrice rumena che opera a Roma per una sorta di originale legame con una civiltà a lei consanguinea.
I personaggi, le tecniche, le maschere, gli attori di una storia infinita che determina il fasci¬no di leggende mitologiche aprono uno spiraglio nella cultura tecnologica e nelle metodologie razionali con l’impeto della immaginazione. L’artista ha tratto linfa per la sua creatività dalle testimonianze coinvolgenti di millenarie affabulazioni. Ed è così che davanti a noi si dispie¬gano le esperienze maturate nell’evoluzione intellettuale con una serie di opere dove la pittri¬ce ha saputo descrivere gli impulsi che animarono il mitico e dovizioso passato in cui si mesco¬lavano nell’imagerie popolare dei e semidei ed intorno un brulicare fervido di satiri, cileni e fauni, di baccanti e ninfe generati da una nuova forma di composizione dove l’espressionismo fantastico ha una parte indicativa. Per un passaggio che potremmo definire naturale ed in certo senso previsto, la Botez ha ampliato il tema della visionarietà con la raffigurazione di un volto, di più volti, di un corpo, di più corpi umani ed animaleschi, erotici, terrificanti o grotteschi, cancellandone i caratteri tradizionalmente intesi e descrivendo la metamorfosi con appassio¬nata attenzione al fine di renderlo diverso da sé per caricarlo di altre capacità espressive, altri poteri che rivelano l’energia segreta ed oscura della fantasia e del sogno.
In origine, la maschera non era un occultamento ma una vera e propria trasformazione, così come c’insegna la tradizione greca nell’ambito di un culto, quello di Dioniso. Ed è attraverso il mascheramento e la rappresentazione scenografica dell’esaltazione del mondo — la realtà e gli inferi, la natura e i demoni — che Doina Botez compie il transito da una concezione feti-cistica delle divinità ad una interpretazione iconografica antropomorfa o zoomorfa, secondo le esigenze tematiche. Dioniso è il dio delle stagioni che organizzano il tempo, è il dio dell’eb¬brezza orgiastica e della malinconia, della vita e della morte in una ambivalenza espressiva che reca i segni della tragedia e l’euforia della rigenerazione. Come poi la Botez sappia ricreare sulle tele con grande impeto formale e con felice effusione cromatica i suoi temi privilegiati, favolisticamente strutturati, è di fronte a noi, lieti di prenderne atto e di trarne godimento.
Roma, dicembre 1998
Alois Huning
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Alois Huning
Doina Botez, die Künstlerin, aus deren Werk die heutige Ausstellung einen Ausschnitt präsentiert, stammt aus Rumänien und wohnt jetzt seit vielen Jahren in Rom.
Ihre wichtigsten persönlichen und kollektiven Ausstellungen in Rumänien, Italien, der Schweiz, in Tschechien, in Spanien, Rußland, den USA und in Deutschland sind Ihnen aus der Einladungskarte oder aus der Presse bekannt – auch die Ausstellung im Vatikan zu Anfang dieses Jahres, bei der dem Papst ihre Interpretation einer alten rumänischen Ikone überreicht wurde.
Doina Botez ist eine vielseitige Künstlerin, die neben der Malerei auch graphische Arbeiten, Stiche, Buchillustrationen und Zeichentrickfilmarbeiten geschaffen hat. Hier sind es vor allem Werke in Öl und in Mischtechnik.
Schon das deutet die Vielfalt nicht nur ihrer Techniken, sondern auch ihrer Themen an, die von Landschaften -etwa einem wundervoll lichten „Morgen in Ravello” – bis zu Portraits reichen, etwa wenn sie ein Bild betitelt „Come se fossi io”, „wie wenn ich das wäre”.
Diese Ausstellung hier in Wülfrath hat ein einheitliches Thema: „Karneval in Venedig”. Auch wenn Doina Botez in Rom lebt, so meint sie doch in einem Interview im Februar 1995, daß der Karneval erst in Venedig sein wahres Gesicht zeige.
Karneval ist für sie das subtile Spiel mit dem Geheimnisvollen, eine spielerische Welt ohne äußeren Druck, in der die gesellschaftlichen Barrieren überwunden sind oder überwunden scheinen. Karneval ist Fest, Farbe, Ausgelassenheit.
Aber schauen wir etwas genauer hin! Auch bei Doina Botez verleugnet der Karneval nicht das Zwiespältige seiner Herkunft. Das Rheinland ist ja auch eine Hochburg des Karnevals – Karneval ist für uns die Zeit der Ausgelasseuheit und der Fröhlichkeit vor dem Aschermittwoch und der Fastenzeit. Und nach dem Feiern – das Weissman vorher – droht der „Kater”!
Das wird dann mit der Ableitung des Wortes erklärt: „Carne vale” – Fleisch adé! – Abschied vom Fleisch, vom Fleischgenuß, von fleischlichen Freuden, die deshalb vor Beginn der Fastenzeit umso reichlicher genossen werden!
Aber wie in vielen anderen Fällen liegt hier als zweite Quelle etwas Heidnischen zugrunde, das im Christentum umgetauft worden ist – wie bei vielen christlichen Feiertagen, die an die Stelle heidnischer Kulte und Feste getreten sind. Hier werden unter christlichem Deckmantel die heidnischen Winter – und Frühlingsfeste der Saturnalien und Luperkalien fortgeführt. Schon die römischen Saturnalien waren gekennzeichent durch den zeitweiligen Wegfall der Standesgrenzen und durche öffentliche und private Festgelage.
Die Luperkalien im Februar zu unserer Karnevalszeit feierten den Hirtengott Faunus, der oft als Kobold dargestellt wurde, und diese beiden Quellen haben in der Geschichte ihre Wirkung auf die künstlerische Darstellung gefunden. Einerseits wird der freudige Lebensgenuß farbenprächtig dargestellt, andererseits wird dieses überschäumende Leben als heidnisches Teufelswerk verurteilt: die venezianische Maskerade steht auch für Sittenverfall, für Sünde und Laster.
Wie aber steht es mit diesem Sujet, mit dem „Karneval in Venedig” bei Doina Botez?
Ich will jetzt nicht über Impressionismus oder Realismus, oder andere kunstgeschichtliche Bezüge etwa zur rumänischen Tradition oder zur europäischen Moderne nachdenken. Ich erlaube mir eine Interpretation, von der ich hoffe, daß sie nicht allzu viel Widerspruch von der Künstlerin erfährt. Ich habe vor dieser Ausstellung noch gar nicht mit ihr gesprochen, sondern mir nur vor einigen Tagen diese Bilder angeschen. Darum ist diese Interpretation durchaus ein ganz persönliches Wagnis.
Ich bin überzeugt, daß Doina Botez in diesen Bildern den Menschen zeigen will, wie er eigentlich in seinem innersten Wesen ist, wie er sich aber unter Masken und Schleiern zu verbergen sucht, die ihn aber gerade dadurch auch verraten. Sie zeigt real Erscheinendes, das zugleich eine Traumwelt ist, die deshalb als Chiffre gelesen werden muß.
Und demit erlaube ich mir, die Lebensreise der Künstlerin von Rumänien – Romania – über Rom in ein anderes romanisches Land zu verlcngern – nach Spanien, wo der Schriftsteller und Dichter Calderón de la Barca gewissermaßen einen deutenden Untertitel zum „Karneval in Venedig” anbietet.
Sein wohl bekanntestes Werk hat den Titel „La vida es sueno” – Das Leben ist ein Traum. Was uns entgegentritt, ist nur Schein, hinter dem die Wahrheit verborgen bleibt. Gewiß wollte Calderón damit die Eitelkeit des irdischen Scheins anprangern und den Sieg der Vernunft über Instinkte und Leidenschaften fördern. Eine solche moralisierende Haltung ist den Werken von Doina Botez nicht zu entnehmen. Sie ist sicher näher an Boccaccio, der hohe Minne und triebhafte biebe gleichermaßen darstellt, dessen anmutig frohe Darstellung eine weltoffene, fröhliche Lebenshaltung offenbart. Aber es ist der Traum des Lebens, das Leben, welches ein Traum ist, das wahrhaft Menschliche hinter dem Traumbild, in dem es erscheint.
Fröhliche Clownerie, aber manchmal auch melancholische Unsicherheit in der Begegnung, große Leuchtkraft der Farben bei gleichzeitiger schleierhafter Verhüllung, vitale Bewegung, aus der die Schönheit der felernden Menschen leuchtet, aber zugleich auch Licht auf menschliche Unzulänglichkeit, denn der Betrunkene ist nicht mehr schön! Komplizierte Drehungen und Wendungen der Körper werden zum Ausdruck der Gefühle von Eifersucht, Koketterie und Spiel der Verliebten. Die Farben sind warm, perlend, vibrierend, und zugleich leicht und klar wie die Luft an der Adria, mit zarter Sensibilität nachgezeichnet.
Das sind die Themen der Arbeiten von Doina Botez: Personen in der Nacht, die Narrheiten der Nacht, sich treiben lassen, trunken lallend, der Traum, Pulcinellas Traum, Tanzend mit Pullcinella, die Überredung, die Verführung, die Umarmung, das Nachdenken, die Erinnerung.
La vida es suono! Karneval ist eine Traumwelt. In diese Welt entführt uns die Künstlerin. Karneval ist flüchtig und vergänglich. Eros und Thanatos, Blühen und Vergehen, Leben und Tod gehören zusammen. Der Schein hält nicht ewig. Der eitle Auftritt im Karneval ist verbunden mit der Warnung des Weisheitsbuches: Alles ist nur eitler Schein: Vanitas vanitatum vanitas! Aber diesen eitlen Schein, diesen Schein der menschlischen Eitelkeit, das Fest des Karnevals in Venedig, unser Leben als Karneval – das uns vor Augen zu führen in Werken, an deren künstlerischer Perfektion, an Farben und Licht wir uns erfreuen können und die uns zugleich nachdenken lassen, das danken wir der Galerie und vor allem der sympathischen Künstlerin Doina Botez.
Wülfrath, 6.10.1996
Plinio Perilli
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Plinio Perilli
Residenze di luce
(I “luoghi d’anima” di Doina Botez)
„Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace”, cantano dei versi melanconici e ariosi di Cardarelli. Ma forse a qualche posto bello e raro, è concesso d’ospitarli, oltre che alla poesia. Ravello, perla vera del Tirreno, „alta costa sopra il mare riguardante”, „quasi la più dilettevole parte d’Italia” – come già Boccaccio dipingeva questa dorata „cittadetta” nel Decameron – rispetta, interpreta da sempre il suo mero destino d’incanto. Estasi libera o contenuta, realtà quotidiana che la fantasia reclama misterica, restituisce e practica in pura gioia visibile. Come ogni caro luogo che accende, insegna Arte.
Progetti minimi e semplici di meraviglia, policromi teoremi sensibili, immoti eppure sommossi, i quadri di Doina Botez offrono finalmente nidi ai gabbiani, residenza alla luce, ricambiano d’azzurro ricordi o cieli sconfinati di mare… Una pittura gravida di colori, emozioni, paziente vestale d’una luminosità che s’elegge a entusiasta, sacra protagonista dell’opera. Così lo spettro solare s’amplia o si condensa, illimpidito di variazioni, o annebbiato da un bianco destino irradiante (moderna eredità dei vapori abbacinati e sublimi di Turner?, l’Azzurro asfissiante di Mallarmé?, il sintetismo idealista e la Noa Noa di Gauguin?). Ma quanta e quale creaturalità espressiva rivelano poi le sorvegliate sfumature del celeste color d’aria, tutti i lirismi inesauribili della Luce? C.G. Jung, in Psicologia e alchimia, evoca un turchino simbolismo fra cielo e mare, altitudine e profondità, ci parla di „oceano superiore e oceano inferiore”. E sono l’arte e la poesia insieme, che meglio li abitano.
Doina Botez, li dipinge: i suoi due oceani, talvolta laghi aperti del cuore, luoghi d’anima. Coniugato tempo/spazio, „Mattino a Ravello”. E come l’anima, costruisce rimorsi, coltiva ànditi o simulacri, instaura pretesti, adombra pudori di tenerezza. Quel ventoso, arruffato nodo d’azzurro e bianco dei gabbiani come alati amanti fermati in volo – quel cielo grondante e padrone di mezzo quadro, sinuoso di giallo-luce, di frammenti inesplosi fra pennellate d’orizzonte e trasversali sorgenti di chiarità, tempeste languidamente sognate, restituite dalla tela, ma domiciliate nell’Io… Il colore si aggruma generoso, s’addensa carico di presagi romantici, che il suo stesso deliquio ama svelarci, gioca a dire più nudi. Un vicolo scuro, segreto dietro la panoramica, densa trasparenza proclamata; un tranquillo, ostile fil di ferro che divide confini di proprietà e arrugginisce „Al tramonto” i medesimi scenari dell’incanto, frena, imprigiona l’eterna fuga dell’anima…
Tutto questo e con questo, Doina Botez ci ammalia, ci rassicura – quasi reciproco, fulgido o sfiorito controsenso di Luce.
Testo critico per la mostra personale „Omaggio a Ravello” – Chiostro di S. Francesco, Ravello, giugno 1994 a cura della Galleria dei Greci di Roma
Mario Lunetta
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Mario Lunetta
UNA GIOSTRA DELLA MATERIA E DEL SOGNO
La pittura rumena del Novecento si è sviluppata soprattutto sull’onda dell’impressionismo e del realismo occidentali, mantenendo peraltro legami di natura quasi fisiologica con il gusto decorativo dell’Arte popolare autoctona. Lo documenta efficacemente l’opera di artisti di forte personalità quali – tra i molti altri – Stefan Luchian, Octav Bancila e Ion Gheorghiu, capofila alla XXXII Biennale di Venezia della tendenza più spregiudicatamente orientata al futuro, attenta comunque a non rimuovere le suggestioni profonde dell’imagerie tradizionale fortemente iconizzata e frontalistica che ha caratterizzato per secoli (specialmente per influsso della cultura bizantina) l’ottica pittorica dominante della Romania.
Gli artisti delle generazioni più giovani paiono oggi orientati a realizzare un confronto consapevole con le più importanti esperienze della pittura europea, e non pochi esponenti lo portano avanti con notevole libertà e vigore. Doina Botez è una di loro.
Nata a Bucarest, ha al suo attivo una ricca esperienza nel settore della grafica, dell’incisione, dell’illustrazione di libri e dell’animazione cinematografica. La permanenza romana ha caricato la sua nativa esuberanza e indipendenza di umori occidentali e mediterranei, contribuendo alla decantazione di certi cupi grumi di tragedia che segnano la sua ultima produzione bucarestina. Probabilmente l’Italia, e in particolare un teatro totale come Roma, hanno costretto la sua sensibilità di „esule” a misurarsi con la propria storia e dimensione personale. Di qui la presenza dominante, nel suo lavoro „italiano”, dell’universo femminile esplorato sempre con effervescente partecipazione.
Anche nell’attenzione reiterata al pianeta donna si realizza in Doina il rapporto profondo con lo spessore della sua autobiografia. La famosa arma a tre punte di Joyce, „silenzio, esilio e astuzia”, non fa per la giovane artista rumena. Alla vita e ai suoi problemi, alle sue malinconie e alle sue sorprese, Doina reagisce con eccesso di temperamento. Il suo”esilio” è eloquente e non ha bisogno di astuzia; essa lo gioca tutto sull’energia e il coinvolgimento entusiastico del riguardante in una sua spiralica giostra della materia e del sogno.
Analizzando il suo lavoro grafico, Virgil Mocanu ha parlato di un „strutturazione palesemente intellettuale” e di un „processo mentale manierista”, di „espressionismo esistenziale” e poetico e di „gioco ambiguo, concreto-illusorio”. Sono, a riprova della coerenza di una ricerca, gli stessi caratteri che lato sensu si ritrovano nella pittura dell’artista. Una pittura prodiga di sé molto materica e al tempo stesso alleggerita – talvolta fino all’evanescenza – da finissime velature e trasparenze: qualcosa che entra in rapporto con il mondo definendosi con estrema franchezza in una corposità perentoria e insieme tende a ritrarsi nello spazio dell’oscillazione onirica, nella sua fluttuante iperdeterminazione, esaltando i dettagli e illuminando la scena della tela di bagliori improvvisi e inaspettati.
Parlare di espressionismo barocco è fin troppo facile, di fronte a questa pittura. Eppure, a ben vedere, il gioco delle prospettive scorciate e sghembe e l’apparizione delle figure quasi costantemente colte in situazione dinamica (e, ça va sans dire, innaturalistica) rimandando forse più a sontuosi tagli cinematografici, a inquadrature inquiete e impossibilitate a fissarsi, a temperature alte e ventose in cui volano corpi e si avvitano vesti, capigliature, respiri.
Non è un caso che la Botez frequenti appassionatamente la poesia e, per il nostro Novecento, particolarmente autori come Ungaretti e Montale. La tecnica dell’allusione e dell’analogia straniata, cosi forte nei poeti dell’Allegria e delle Occasioni, è in qualche modo passata, ovviamente attraverso i filtri dello specifico visuale, nella ricerca recente dell’artista, sempre più decisamente orientata a conferire all’immagine un complesso di sensi autonomi rispetto alla riconoscibilità del soggetto di partenza, a porsi come organismo autologico rispetto al referente di base. L’individualità di Doina si manifesta cosi per azzardi continui tra il momento lirico e il momento costruttivo; suo bisogno di confessione si scontra sempre più aspramente con l’urgenza di stabilire con la realtà generale un rapporto di confronto perfino violento. Il suo appare un percorso tutt’altro che elegiaco o di ripiegamento intimistico. Questa pittura che insegue la forma dentro il magma, il profilo definito dentro la cecità delle viscere, necessita, per dispiegare tutta la sua struggente volontà di comunicazione, di presentarsi, per cosi dire, quasi nel corso di una colluttazione e di un conflitto. E’ una pittura che genera allarme, non pacificazione contemplativa. Una pittura sapiente e rapida, tutta spinta sull’impeto, ma d’altronde sempre capace di organizzarlo entro una sintassi decisa, che impone allo spazio della tela la propria presenza e le proprie cadenze. Necessariamente un simile procedere esige una pennellata veloce e cruda, talora secche spatolate e forte, insistita densità materica intrisa di luce. Ed è interessante assistere al dispiegarsi avvolgente di questa imago femminile come sul ritmo di un film, in cui lo stravolgimento espressionistico della figura e la relativa scompaginazione formale non intaccano comunque la gradevolezza sorprendente dell’epifania. Come portate da un vento, le icone sconvolte e cariche di inquietudine della Botez soffrono l’impaccio della gestualità consueta, e sia nell’abbandono sia nell’accenno di movenze acrobatiche in cui sorprende l’occhio preciso dell’artista, paiono aspirare alla leggerezza a un’atmosfera più libera, a un cosmo meno opaco di quello che quotidianamente e caoticamente ci ospita.
La drammatizzazione strutturale e emotiva lavora su una tavolozza decisamente risentita: azzurri, viola, rossi, ocre, verdi, bianche trattati con vigorosa finezza si contendono le ragioni di competenza fino alla tentazione di uno sconfinamento permanente. Il cromatismo robusto di Doina e il suo aggredire l’economia della tela per linee oblique in cui la figura è come investita da una mimica slogata e innaturale e da fendenti tranchants (non senza un vaga contiguità con i modi di un pittore come Calabria), riescono a un sistema di lacerazioni visionarie, di sviluppi di corporeità annodate e fiamme spinte verso l’alto. Costipazione e verticalismo. Scatto insofferente di costrizioni e panie viscose che legano, impediscono, ostacolano. In questa dialettica serrata si snoda attualmente l’allegoria dell’esistenza e della pittura di Doina Botez. In quanto allegoria moderna è, come voleva Benjamin, un „allegoria vuota”. In quanto luogo di tensioni di un artista di talento, è assai piena di scoperta e di avventura.
Roma, Ottobre 1991
Ugo Moretti
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Ugo Moretti
Doina è venuta da lontano, dalle foreste cupe e dure dei Carpazi, ha traversato il „bel Danubio blu”, percorrendo all’indietro l’itinerario che i suoi lontani progenitori hanno tracciato al seguito del magnifico Traiano, sospinta da un ancestrale richiamo. Un irresistibile impulso l’ha condotta a Roma dove, con illuminazione metafisica, ha riconosciuto le sue origini, ha sentito l’odore delle sue radici: s’è guardata allo specchio di rame del Campidoglio e ha visto nell’immagine riflessa la fisionomia sognante di Agrippina, severa e al tempo stesso avventurosa. Saltando secoli, con irruenta impazienza, Doina si è fermata al secolo sublime della cultura e dell’arte e dell’intelligenza dell’umanità. Dal recupero dell’identità romana, Doina rumena, ha acquisito una dimensione universale.
Dal barocco all’informale, dal cromatismo all’espressione, dall’espressionismo al liberty, Doina si è caricata di energie e di suggerimenti. E sopratutto di entusiasmo, di amore riconquistato per la sua patria spirituale, il sogno impossibile che è diventato realtà: Roma.
La Roma barocca di Doina è esuberante di colori e di travolgimenti: azzurri e gialli solari, rossi porpora, verdi smeraldino, ombre che si dilaniano in squarci di candore abbagliante, ocra morbida come la sabbia, guizzi repentini di cobalto e – protagonista – la figura. Netta e autoritaria, danzante o in fuga, abbandonata e pronta alla battaglia, la figura di Doina è la proiezione di un autoritratto. E’ sempre lei, in finzioni e mascheramenti, che si veste e si spoglia in un putiferio di stoffe, di paramenti, di stracci e di drappi. Combina figure confuse e al tempo stesso concrete. E’ un balletto dove i movimenti sono stabiliti da un rigoroso coreografo e vengono scompigliati perché un vento sul palcoscenico ha fatto volare via i fogli dello spartito. E’ un baccanale di colori che si scatena intorno alle figure di Doina, cioè intorno a sé stessa.
Corrono e ballano ubriachi di gioia i colori di Doina: la purezza dei loro toni intatti e spessi danno l’idea della forza del colore, come forma e sostanza. Non c’è indecisione nel gesto di Doina, quando impugna il pennello e lavora con la spatola come uno scultore; spande l’argilla a complessi ondosi d’impasti.
A seconda della luce e l’angolazione, i dipinti di Doina cambiano natura: con la luce fredda dei neon, assumono la fulminea improvvisazione dei fuochi artificiali e rimangono impressi nella memoria visiva come nella notte di San Giovanni. Visti al chiarore del sole al mattino, nel suo studio alto, sulle terrazze della borgata Trionfale sembra di assistere alla esplosione tropicale di una giungla dai fiori sconosciuti ai botanici e che allietano festosamente i giorni delle stagioni dell’amore: al di là dei quadri, percepisci i battiti, i ruggiti, i lamenti languidi delle belve in calore, e lo stesso languore lo scopri negli occhi delle donne di Doina, cioè nei suoi occhi, luccicanti di rabbia e di mistica.
Perché un artista deve avere come patrimonio esistenziale la rabbia e il misticismo. Altrimenti è un artigiano operoso, che ha dalla sua l’abilità e il calcolo. Grazie a Dio, Doina è un artista.
Roma, giugno 1990