Franca Calzavacca
Franca Calzavacca
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Franca Calzavacca
Se le intenzioni della cultura contemporanea sono quelle di rintracciare la propria identità analizzando il passato, pubblico e privato, la ricerca attuale intorno al tema della pittura nelle varie accezioni del suo linguaggio indica nuovi orizzonti alle molteplici espressioni estetiche che compongono il panorama internazionale dell’arte visiva.
Le polemiche che hanno sempre accompagnato il lavoro di approfondimento critico sem¬brano ormai sostituirne una componente essenziale, precipitando il nostro operare nelle con¬troversie dell’interpretazione e vanificandone le intenzioni. C’è però un modo di esprimersi nella pittura che ci permette una sosta salvifica, una pausa sabbatica nelle diatribe su chi abbia il diritto di considerarsi il vero esponente dell’epoca di transizione in cui viviamo. Di questa alterità positiva scriviamo occupandoci dell’impegno intellettuale di Doina Botez, pittrice rumena che opera a Roma per una sorta di originale legame con una civiltà a lei consanguinea.
I personaggi, le tecniche, le maschere, gli attori di una storia infinita che determina il fasci¬no di leggende mitologiche aprono uno spiraglio nella cultura tecnologica e nelle metodologie razionali con l’impeto della immaginazione. L’artista ha tratto linfa per la sua creatività dalle testimonianze coinvolgenti di millenarie affabulazioni. Ed è così che davanti a noi si dispie¬gano le esperienze maturate nell’evoluzione intellettuale con una serie di opere dove la pittri¬ce ha saputo descrivere gli impulsi che animarono il mitico e dovizioso passato in cui si mesco¬lavano nell’imagerie popolare dei e semidei ed intorno un brulicare fervido di satiri, cileni e fauni, di baccanti e ninfe generati da una nuova forma di composizione dove l’espressionismo fantastico ha una parte indicativa. Per un passaggio che potremmo definire naturale ed in certo senso previsto, la Botez ha ampliato il tema della visionarietà con la raffigurazione di un volto, di più volti, di un corpo, di più corpi umani ed animaleschi, erotici, terrificanti o grotteschi, cancellandone i caratteri tradizionalmente intesi e descrivendo la metamorfosi con appassio¬nata attenzione al fine di renderlo diverso da sé per caricarlo di altre capacità espressive, altri poteri che rivelano l’energia segreta ed oscura della fantasia e del sogno.
In origine, la maschera non era un occultamento ma una vera e propria trasformazione, così come c’insegna la tradizione greca nell’ambito di un culto, quello di Dioniso. Ed è attraverso il mascheramento e la rappresentazione scenografica dell’esaltazione del mondo — la realtà e gli inferi, la natura e i demoni — che Doina Botez compie il transito da una concezione feti-cistica delle divinità ad una interpretazione iconografica antropomorfa o zoomorfa, secondo le esigenze tematiche. Dioniso è il dio delle stagioni che organizzano il tempo, è il dio dell’eb¬brezza orgiastica e della malinconia, della vita e della morte in una ambivalenza espressiva che reca i segni della tragedia e l’euforia della rigenerazione. Come poi la Botez sappia ricreare sulle tele con grande impeto formale e con felice effusione cromatica i suoi temi privilegiati, favolisticamente strutturati, è di fronte a noi, lieti di prenderne atto e di trarne godimento.
Roma, dicembre 1998