Mario Lunetta
Mario Lunetta
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Mario Lunetta
UNA GIOSTRA DELLA MATERIA E DEL SOGNO
La pittura rumena del Novecento si è sviluppata soprattutto sull’onda dell’impressionismo e del realismo occidentali, mantenendo peraltro legami di natura quasi fisiologica con il gusto decorativo dell’Arte popolare autoctona. Lo documenta efficacemente l’opera di artisti di forte personalità quali – tra i molti altri – Stefan Luchian, Octav Bancila e Ion Gheorghiu, capofila alla XXXII Biennale di Venezia della tendenza più spregiudicatamente orientata al futuro, attenta comunque a non rimuovere le suggestioni profonde dell’imagerie tradizionale fortemente iconizzata e frontalistica che ha caratterizzato per secoli (specialmente per influsso della cultura bizantina) l’ottica pittorica dominante della Romania.
Gli artisti delle generazioni più giovani paiono oggi orientati a realizzare un confronto consapevole con le più importanti esperienze della pittura europea, e non pochi esponenti lo portano avanti con notevole libertà e vigore. Doina Botez è una di loro.
Nata a Bucarest, ha al suo attivo una ricca esperienza nel settore della grafica, dell’incisione, dell’illustrazione di libri e dell’animazione cinematografica. La permanenza romana ha caricato la sua nativa esuberanza e indipendenza di umori occidentali e mediterranei, contribuendo alla decantazione di certi cupi grumi di tragedia che segnano la sua ultima produzione bucarestina. Probabilmente l’Italia, e in particolare un teatro totale come Roma, hanno costretto la sua sensibilità di „esule” a misurarsi con la propria storia e dimensione personale. Di qui la presenza dominante, nel suo lavoro „italiano”, dell’universo femminile esplorato sempre con effervescente partecipazione.
Anche nell’attenzione reiterata al pianeta donna si realizza in Doina il rapporto profondo con lo spessore della sua autobiografia. La famosa arma a tre punte di Joyce, „silenzio, esilio e astuzia”, non fa per la giovane artista rumena. Alla vita e ai suoi problemi, alle sue malinconie e alle sue sorprese, Doina reagisce con eccesso di temperamento. Il suo”esilio” è eloquente e non ha bisogno di astuzia; essa lo gioca tutto sull’energia e il coinvolgimento entusiastico del riguardante in una sua spiralica giostra della materia e del sogno.
Analizzando il suo lavoro grafico, Virgil Mocanu ha parlato di un „strutturazione palesemente intellettuale” e di un „processo mentale manierista”, di „espressionismo esistenziale” e poetico e di „gioco ambiguo, concreto-illusorio”. Sono, a riprova della coerenza di una ricerca, gli stessi caratteri che lato sensu si ritrovano nella pittura dell’artista. Una pittura prodiga di sé molto materica e al tempo stesso alleggerita – talvolta fino all’evanescenza – da finissime velature e trasparenze: qualcosa che entra in rapporto con il mondo definendosi con estrema franchezza in una corposità perentoria e insieme tende a ritrarsi nello spazio dell’oscillazione onirica, nella sua fluttuante iperdeterminazione, esaltando i dettagli e illuminando la scena della tela di bagliori improvvisi e inaspettati.
Parlare di espressionismo barocco è fin troppo facile, di fronte a questa pittura. Eppure, a ben vedere, il gioco delle prospettive scorciate e sghembe e l’apparizione delle figure quasi costantemente colte in situazione dinamica (e, ça va sans dire, innaturalistica) rimandando forse più a sontuosi tagli cinematografici, a inquadrature inquiete e impossibilitate a fissarsi, a temperature alte e ventose in cui volano corpi e si avvitano vesti, capigliature, respiri.
Non è un caso che la Botez frequenti appassionatamente la poesia e, per il nostro Novecento, particolarmente autori come Ungaretti e Montale. La tecnica dell’allusione e dell’analogia straniata, cosi forte nei poeti dell’Allegria e delle Occasioni, è in qualche modo passata, ovviamente attraverso i filtri dello specifico visuale, nella ricerca recente dell’artista, sempre più decisamente orientata a conferire all’immagine un complesso di sensi autonomi rispetto alla riconoscibilità del soggetto di partenza, a porsi come organismo autologico rispetto al referente di base. L’individualità di Doina si manifesta cosi per azzardi continui tra il momento lirico e il momento costruttivo; suo bisogno di confessione si scontra sempre più aspramente con l’urgenza di stabilire con la realtà generale un rapporto di confronto perfino violento. Il suo appare un percorso tutt’altro che elegiaco o di ripiegamento intimistico. Questa pittura che insegue la forma dentro il magma, il profilo definito dentro la cecità delle viscere, necessita, per dispiegare tutta la sua struggente volontà di comunicazione, di presentarsi, per cosi dire, quasi nel corso di una colluttazione e di un conflitto. E’ una pittura che genera allarme, non pacificazione contemplativa. Una pittura sapiente e rapida, tutta spinta sull’impeto, ma d’altronde sempre capace di organizzarlo entro una sintassi decisa, che impone allo spazio della tela la propria presenza e le proprie cadenze. Necessariamente un simile procedere esige una pennellata veloce e cruda, talora secche spatolate e forte, insistita densità materica intrisa di luce. Ed è interessante assistere al dispiegarsi avvolgente di questa imago femminile come sul ritmo di un film, in cui lo stravolgimento espressionistico della figura e la relativa scompaginazione formale non intaccano comunque la gradevolezza sorprendente dell’epifania. Come portate da un vento, le icone sconvolte e cariche di inquietudine della Botez soffrono l’impaccio della gestualità consueta, e sia nell’abbandono sia nell’accenno di movenze acrobatiche in cui sorprende l’occhio preciso dell’artista, paiono aspirare alla leggerezza a un’atmosfera più libera, a un cosmo meno opaco di quello che quotidianamente e caoticamente ci ospita.
La drammatizzazione strutturale e emotiva lavora su una tavolozza decisamente risentita: azzurri, viola, rossi, ocre, verdi, bianche trattati con vigorosa finezza si contendono le ragioni di competenza fino alla tentazione di uno sconfinamento permanente. Il cromatismo robusto di Doina e il suo aggredire l’economia della tela per linee oblique in cui la figura è come investita da una mimica slogata e innaturale e da fendenti tranchants (non senza un vaga contiguità con i modi di un pittore come Calabria), riescono a un sistema di lacerazioni visionarie, di sviluppi di corporeità annodate e fiamme spinte verso l’alto. Costipazione e verticalismo. Scatto insofferente di costrizioni e panie viscose che legano, impediscono, ostacolano. In questa dialettica serrata si snoda attualmente l’allegoria dell’esistenza e della pittura di Doina Botez. In quanto allegoria moderna è, come voleva Benjamin, un „allegoria vuota”. In quanto luogo di tensioni di un artista di talento, è assai piena di scoperta e di avventura.
Roma, Ottobre 1991